Vangelo secondo Giovanni, 8.3: “Chi è senza peccato scagli la prima pietra”. I peccati appartengono a tutti, o a nessuno, le pietre per punirli invece hanno un’origine, sottolineata e insistita, quella australiana.
Chi è senza peccato – The Dry è un thriller che se da una parte avvicina peccato e peccatore, dall’altra allontana l’Australia di un tempo, ideale verde rigogliosa, da quella di di oggi, reale grigia sterile: ciò che rimane è amara nostalgia di un tempo della natura che fu, mentre di un tempo differente dell’uomo non c’è né nostalgia né speranza. Davvero troppa la menzogna.
Dall’omonimo romanzo di Jane Harper (Bompiani, 2018), diretto da Robert Connolly, Chi è senza peccato – The Dry segue il ritorno dell’agente federale Aaron Falk (Eric Bana, efficace nell’interpretazione, nato per questi ruoli) a Kiewarra, sua città natale, per partecipare al funerale dell’amico d’infanzia Luke (Martin Dingle Wall), uomo che in preda a furia omicida avrebbe – si noti il condizionale – ucciso moglie e figlio prima di suicidarsi.
Dopo vent’anni passati via, ciò che attende l’agente Falk è però un paesaggio mutato, in termini di natura – siccità ora imperante – e in termini umani – una comunità dallo sguardo diffidente e stretta da memorie spinose; pochi i volti amici, quello di Gretchen (Genevieve O’Reilly), amica d’infanzia e ora madre single, e quello di Scott Whitlam (John Polson), preside della scuola. A quest’ultimi si aggiungono i genitori di Luke, desiderosi di redimere la memoria del figlio e pronti a convincere Falk a rimanere, rimanere per aiutare il poliziotto locale Greg Raco (Keir O’Donnel) a indagare su una vicenda che da unica si fa doppia come doppio diviene il tempo e il delitto: l’oggi e lo ieri, la misteriosa follia omicida-suicida di Luke e l’annegamento di una ragazza di nome Ellie (Bebe Bettencourt) avvenuto anni prima in circostanze misteriose. Strano a dirsi, primo indiziato di quel omicidio/suicidio era proprio lui, Aaron Falk.
Diciamolo subito: Chi è senza peccato – The Dry è un film che sa il fatto il suo (e non è poco), un thriller che sa quali sono i limiti e i pregi del genere e all’interno degli uni e degli altri si muove con agilità. No, non cerca fughe, eccezioni o strappi, al massimo si concede una sgranatura nei flashback funzionale al racconto, ad accompagnare un montaggio curato che sa quando andare al passo e quando al trotto, che non vuole stupire ma (in)trattenere.
Detto ciò, vi sono due note positive che non rendono la pellicola qualcosa di eccezionale nel genere, tuttavia l’arricchiscono e la condiscono. La natura, in primis: eco lontana di quell’atmosfera paludosa, primitiva, sacrale dominante in True Detective (stagione 1, 2014), qui il paesaggio si fa infecondo, farinoso e mulinelli di grano compiono i loro volteggi (poetici) accanto a laghi arsi che non vedono da 324 giorni una goccia d’acqua. È autentica, rauca siccità. Ciò che rimane di quella, dell’acqua, si fa sporco, contaminato, ma altro per lavarsi effettivamente non c’è, nemmeno per lavarsi le colpe. Le colpe e le menzogne.
Bugie, mezze verità, falsità. È questo infatti il secondo elemento che caratterizza la pellicola – come pure le precedenti opere dei produttori, Gone girl (2014, https://www.closeup-archivio.it/festival-del-film-di-roma-2014-gone-girl) e The Undoing (2020; https://www.closeup-archivio.it/the-undoing-le-verita-nascoste) – e verrebbe da pensare che non sia poi molto: chi dopotutto non mente all’interno di un thriller? Ma è proprio qui che sta lo scarto all’interno del genere: nel film chi mente, o ha mentito, è prima di tutto colui che deve capire chi gli sta mentendo. Il protagonista, Aaron Falk. Come dargli torto: è tutt’altro che facile distinguere verità o falsità quando ne sei tu il primo artefice (è la distanza tra un “sì” e un “no”).
Un circo, un dedalo, un caleidoscopio di menzogne nel quale “sparare ai conigli” copre azioni ben più ignobili, nel quale un albero piantato in memoria dai compagni del piccolo ucciso non ha speranze di sopravvivenza per voce dello stesso preside, nel quale lo sguardo del detective affonda tra passi falsi e trappole tese a lui e allo spettatore. Una sola soluzione: la catabasi, affondare sino in fondo nell’acqua color ruggine, ne «il buco nero di Kiewarra», nella siccità che si fa prossima alla pazzia, e solo allora poterne uscirne.
Peccato, pietre, peccatori, quindi. Il titolo italiano, a sommarsi al The Dry dell’originale, si fa esplicito evitando di peccare di didascalia, giocando di reticenza e infine indicando la strada per leggere l’intero film: nessuno è puro, nessuno è salvo da un ultimo, fino alla fine, “ti ho mentito”. Neppure gli spettatori. E comunque, dopo il peccato e la pietra, c’è sempre altro, perché per l’agente Kalf questo non è un ritorno a casa pacifico o meno, sofferto e rifiutato, è qualcosa che travalica il presente per pescare nel passato: è redenzione.
In sala dall’ 11 novembre
Chi è senza peccato – The Dry – Regia: Robert Connolly; sceneggiatura: Harry Cripps, Robert Connolly; soggetto: Jane Harper; fotografia: Stefan Duscio; scenografie: Ruby Mathers; montaggio: Nick Meyers; Alexandre De Franceschi; costumi: Cappi Ireland; musiche: Peter Raeburn; interpreti: Eric Bana, Genevieve O’Reilly, Keir O’Donnell, John Polson, Julia Blake, Bruce Spence, Matt Nable, William Zappa, James Frecheville; produzione: Made up stories, Arenamedia, Pick up truck pictures; origine: Australia, 2021; durata: 117’; distribuzione: Notoriuous Pictures.