Close di Lukas Dhont

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Dopo il corpo perso e ritrovato nella transizione identitaria di Lara, la ballerina adolescente di Girl, Lukas Dhont racconta altri corpi, sulla soglia tra una sognante, evanescente infanzia campestre e l’ingresso in una pubertà di livida carnalità ed emozioni taglienti: anche Leo e Remi, i protagonisti di Close, Gran premio speciale della giuria all’ultimo Festival di Cannes, hanno a che fare con una transizione, più sfumata nel definire i confini di un abbraccio , di un affetto e di una pulsione. Non c’è  una disciplina rigida e totalizzante come quella del balletto classico, dentro la quale la “ragazza” del film precedente metteva alla prova i limiti e le possibilità del suo divenire , ma la dimensione rituale e immaginifica del gioco. Fin dal primissima inquadratura, che nasce dal buio generativo di un brusio non riconoscibile, prende vita la complicità di una coppia di ragazzini che in quel momento potrebbero essere qualsiasi cosa , compagni di guerre dei bottoni, fratelli di un sangue non ancora versato in pegno ad una più adulta età acerba, amanti (ir)regolari sulla partitura del sublime e del trasfigurato. Le corse mozzafiato in bicicletta lungo i viali della floreale campagna belga nell’esplosione estiva di colori densamente vitali ( ma “ un po’ d’estate in fondo c’è in ogni morte ” cantavano i Baustelle in “Reclame”, un loro vecchio brano accompagnato da un evocativo coro infantile di cui avrebbero potuto far parte anche Leo e Remi…) sono attraversate da una tensione costante verso un altrove che non può e non vuole costringersi dentro i contorni precisi di una forma.

C’è la spontanea, istintiva necessità di non farsi afferrare e incasellare dalla  pratica comune di dare un nome, in funzione di una comprensione qualunquista e superficiale, ad una relazione che nello specifico si colloca nel più impercettibile e delicato spazio-tempo di una fragile essenza in progress. In Girl c’era la crudelissima scena in cui le  ballerine compagne di Lara la costringono a spogliarsi davanti a loro, per avere il segno evidente, oggettivo, incontrovertibile della diversità tra lei e le altre ragazze (e poco dopo, proprio attraverso  il disperato tentativo di auto-evirazione, Lara cercherà di eliminare quel segno discriminatorio e mortificante, per sopperire alla frustrazione di un ritardato intervento chirurgico); in Close la pretesa e la pressione rispetto alla definizione della natura del rapporto tra Leo e Remi, cosi ravvicinato anche dal punto di vista fisico,  iniziano sempre dai compagni di scuola, che esprimono l’atteggiamento di una società coercitiva e conformista, forzando probabilmente negli stessi due ragazzi la ricerca di un senso per quell’attrazione sul punto di manifestarsi in passione o fratellanza.

Non c’è però nessuna forzatura, didascalismo o effetto nel precipitare di Leo e Remi, dal pagano paradiso di ridanciani inseguimenti al calore bianco e coreografiche danze/ lotte da roseaux savages inebriate di bellezza e mistero all’inferno solitario di un tramonto rosseggiante di dubbio e colpa;  e proprio come nel memorabile  L’età acerba –Les roseaux savages di Andre Téchiné (1994) ci sembra che in Dhont risuoni la sottigliezza e la precisione nell’osservare le vibrazioni sotto pelle, seppur con una meno schietta ed esplicita connotazione sociale e politica.

Non è il caso di svelare nel dettaglio l’evento che cambia il registro del racconto, virandolo verso i toni più cupi della tragedia, ma non tanto per un discorso legato alla progressione narrativa, per altro ampliamente immaginabile anche solo da ciò che è stato detto fino a questo punto. La questione è che il cinema di Dhont, alla sua opera seconda ma con una poetica in elaborazione che raccoglie già così tanti ed evocativi segni, sembra trovare la sua espressione più felice ed armonica, senza rinunciare alla dissonanza e all’ambiguità del non detto e del non mostrato, nella descrizione di uno stato e di un atmosfera; il mood di moti interiori sommersi ed emersi,  che riannoda il filo temporale del bergmaniano cinema dell’istante, (seguendo  la definizione che Godard diede del grande regista svedese come “cineasta dell’istante”, per altro in relazione a Monica e il desiderio, altro racconto di roventi pulsioni estive e repentine luci d’inverno) e restituisce il piacere di una profonda leggerezza;  la capacità di essere aerei e fluidi eppure lasciare un’ impronta cosi materica, tutto il peso del nostro passaggio sulla terra, respiro dopo respiro, fotogramma dopo fotogramma.

Se un certo pedinamento puntuale e lo sguardo intriso di pietas e lucidità non può non far pensare all’infanzia amara filmata dai Dardenne (come la presenza dell’indimenticabile Rosetta/Emile Dequenne nel ruolo della madre di Remi, non paralizzata dal suo quieto ed implacabile dolore nel bisogno di comprendere e condividere), alcuni accenti di lirismo, soprattutto nell’ariosa colonna sonora musicale e nel riverbero dei rumori della natura,  rimandano ad una sorta di nuovo realismo poetico; una zona proiettiva ma non morta e anacronistica (quasi assenti schermi e supporti digitali) ma non trapassata  di candore e stupore tra ciò che succede immanentemente  nell’esterno giorno di un piccolo giro di vite e il modo in cui viene percepito ed elaborato dagli assoluti imperativi della giovinezza: Tutto o niente … o forse Quasi niente, come recitava un titolo d’annata (2000) diretto Sebastien  Lifshitz, che costeggiava tra la speculare radicalità dell’euforia erotico/sentimentale e la disillusione abissale della fine dell’età dell’innocenza, spostata qualche anno più avanti rispetto a quella dei protagonisti di Close.

E c’è da dire che  le accelerate e le frenate in bici di Leo, i suoi falsi movimenti da giocatore di Hockey che pensa di spezzare il dolore spezzandosi le ossa, rimangono già tra i momenti più intensi di un anno di cinema appena cominciato, contenuto tra l’alba e il tramonto, la primavera e l’autunno di uno schermo così intimo da risultare più espanso ed immenso di qualsiasi 3d.

In sala dal 4 gennaio


Close  – Regia: Lukas Dhont; sceneggiatura: Lukas Dhont, AngeloTijssens; fotografia:Frank van den Eeden; montaggio: Alain Dessauvage; musica: Valentin Hadjadj; interpreti: Eden Dambrine,Gustav de Waele,Émilie Dequenne, Léa Drucker, Kevin Janssen, Marc Weiss, Igor van Dessel, Léon Bataille; produzione : Menuet, Diaphana Films, Topkapi Films, Versus Prod., VTM, RTBF; origine: Belgio 2022; durata: 104 minuti; distribuzione: Lucy Red.

 

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