Siamo abituati a vedere la guerra alla distanza, su una mappa, una proiezione matematica di spazi divisi tra loro: lo spazio del fronte, in cui la guerra avviene, e il resto del territorio della nazione colpita, solo in apparenza e momentaneamente al sicuro. I notiziari promuovono continuamente questa divisione di spazi concentrandosi soprattutto sul fronte. Il cinema ha cercato di rispondere al sistema informativo immergendosi negli spazi, che sia per fare contro-informazione sulle vicende del fronte o che sia per farci vivere la quotidianità negli spazi sicuri. Eastern Front crea invece un dialogo tra spazi per far rendere conto allo spettatore delle modalità percettive che ogni spazio implica e della potenziale reversibilità degli spazi e delle aspettative spettatoriali legate agli spazi.
I due spazi che fa dialogare il film sono il fronte orientale del conflitto e un non meglio specificato spazio in cui gli ucraini passano serenamente il tempo. Nella scena del fronte siamo immersi in prima persona nelle avventure del videomaker militante-militare Yevhen Titarenko. Inseguiamo prima una barella trasportare una donna in ambulanza, poi viviamo un’eccitante corsa dell’ambulanza verso l’ospedale per salvare un militare colpito. Nel momento della rianimazione, quando lo spettatore è catturato dalla sorte della vittima, uno stacco di montaggio ci porta a un dipinto di un lago e poi in un lago dove alcuni militari e bambini si rilassano. È un campo – contro campo che ritorna continuamente nel film e che produce ogni volta un distanziamento ironico dalla scena, dopo che lo spettatore si era immerso nell’azione del fronte.
Nello spazio di tregua si raccontano storie per passare il tempo, si discorre di figli, adozioni, donazioni di sperma, si parla della percezione della guerra prima del 2021. Una chiacchiera non molto diversa da quella a cui siamo abituati in occidente. Lo spettatore si trova così diviso a immergersi maggiormente in un’azione che difficilmente può comprendere per poi ritrovarsi in uno spazio di tranquillità e sicurezza che è anche il suo. Emerge una dialettica tra i tempi stretti e concitati del fronte e quelli dilatati delle retrovie, ma anche tra il godimento spettatoriale per l’azione del fronte e la noia per la quotidianità del lago che spinge lo spettatore ad attendere l’azione cioè la violenza del fronte.
Il gioco si complica con l’avanzare della guerra. Ora gli uomini del fronte si trovano in una casa a cucinare e chiacchierare serenamente. Una serie di esplosioni lontane ci indicano che la guerra si è spostata. Finalmente un contro campo ci mostra dalla finestra della casa la zona bombardata, proprio quel lago che si è visto prima. Ma il film non stacca mai sulla zona del lago. Lo spettatore, che si affidava al montaggio per comprendere la situazione, non sa neanche se campo e contro campo fossero in contemporanea, è per sempre separato dalla comprensione dell’accaduto, dalla fine di quelle persone. Il gioco ironico si trasforma in un efferato gesto di brutalità verso lo spettatore, colpevole di avere aspettative e pretese di comprensione verso qualcosa così distante dal proprio mondo.
Una mina fa esplodere un veicolo, ora ogni spazio è diventato un pericolo, ogni strada un territorio minato per lo spettatore. E i registi Titarenko e Mansky (autore già noto per i documentari sulla Nord Corea, su Gorbaciov e l’ascesa al potere di Putin) si divertono nel mostrare un automobile lasciare lentamente lo schermo. Gli stacchi dal fronte giungono su una natura apparentemente indifferente, eppure anche gli animali sono implicati in questa tragedia. Un’esplosione fa saltare un allevamento di mucche, mentre il regista Titarenko sentendosi assalito da un cane decide di farlo fuori in una delle scene più scioccanti. Ma perché dopo tutto quel che si è visto sarebbe così scioccante l’omicidio di un cane? È un altro gioco intellettuale dei registi? O semplicemente il regista stesso è l’ennesima vittima della pazzia della guerra?
Nell’ultima scena Titarenko, in fuga dalle esplosioni, fa sballonzolare la camera, la visione si capovolge a 180°. La scena concitata giunge al culmine in una spettacolare esplosione che fa concludere il film in un “fade to white” tipico dell’action. Presentato nella sezione Doc Highlights, di fronte a questo schermo bianco abitato solo dal respiro affannato del regista nessun applauso. La freddezza della ricezione di cosa è indice? Il senso di colpa di essere testimoni di tutto ciò, l’ammissione dell’inutilità di qualsiasi gesto da parte dello spettatore o una certa irritazione per il modo con cui è stato trattato dai registi? È chiaro che i registi siano più interessati a che lo spettatore si ponga certe questioni piuttosto che questi stia nella posizione di poter rispondere.
Eastern Front – Regia: Vitaly Mansky, Yevhen Titarenko; sceneggiatura: Vitaly Mansky; fotografia: Yevhen Titarenko, Ivan Fomichenko; montaggio: Andrey Paperny; produzione: Natalia Manskaia per Film Studio Vertov, Filip Remunda e Vít Klusák per Hypermarket Film, Nataliia Khazan per Braha Production Company, Kenan Aliyev per Current Time TV; origine: Lettonia / Repubblica Ceca / Ucraina / Stati Uniti, 2023; durata: 98 minuti.