Anche i borghesi hanno i loro problemi. Anzi, soprattutto i borghesi, piccoli medi alti che siano, hanno i loro problemi. Sono però le soluzioni presentate che spesso sono più interessanti dei problemi stessi e una di queste soluzioni può essere isolare il sentimento ed elevarlo. Come se il dolore facesse meno male se fosse Dolore. No tradimento, ma Tradimento. No amore, ma Amore.
L’anitra selvatica di Ibsen si riallaccia proprio a questo, la volontà di elevare e risolvere affari di famiglia e di persona – quei sentimenti viscerali che toccano il proprio senso di appartenenza e di vita – con l’astrattismo. Perché rendere qualcosa teoria dovrebbe far meglio, perché innalzare un animale amato, l’anitra selvatica, al rango di agnello sacrificale dovrebbe salvare la relazione tra padre e figlia. Tuttavia, si ricordi una cosa: tanto è facile salire nell’iperuranio, tanto è facile scendervi e tornare rapidi fra noi. Tra corpi e vite umane, dove a muoversi non sono anitre selvatiche idealizzate ma figlie in carne e ossa e i colpi di pistola sono estremamente reali come la pelle che ne viene perforata.
Cinque atti sono cosa dura da riassumere in poche linee, figuriamoci in uno spettacolo di un’ora, ma tant’è, ci si provi di seguito. Ci sono un padre, Ekdal, e una figlia, Hedvig, la nostra protagonista, e c’è una soffitta colma di uccelli e conigli, una ‘foresta casalinga’, dove si aggira un’anitra selvatica di grande valore per la famiglia intera. C’è l’ex-socio del padre di Ekdal, Werle, che a Ekdal ha dato una moglie, un lavoro e versa una quota mensile, forse sentendosi in colpa per il fallimento dell’attività, forse per qualcosa di più intimo e privato. Così pensa Greger, il figlio di Werle, di fede fortemente idealista, e sospetta che quel qualcosa di intimo, privato sia una figlia nata fuori dal matrimonio, Hedvig, proprio lei. Greger, l’idealista, non può fare a meno di comunicare a Ekdal i suoi dubbi: meglio sapere ed elevare a idea il tradimento che non sapere nulla, lui crede. Hedvig, venuta a sua volta a conoscenza del dubbio di Greger, decide di sacrificare l’anitra amata al padre per dimostrargli tutto il suo affetto, tuttavia non sa come ucciderla, deve chiedere al nonno, perché
A quest’anitra selvatica avrei tanta voglia di tirare il collo.
Il giorno successivo Ekdal è estremamente freddo con la figlia. Rifiuta l’abbraccio. Poco dopo uno sparo risuona nella casa. È stato il nonno, nella soffitta, e così l’anitra è infine morta. Ma poco dopo il nonno entra in scena, ma dal salotto, e non dalla soffitta. Si sale allora di un piano e si trova che l’anitra sta bene, Hedvig invece no: è distesa per terra, non si vedono segni di ferite, eppure il vestito è bruciato in un punto. Di lei rimarrà poco o nulla, solo una cosa. Si legga per scoprirlo.
Federica Santoro decide per una messa in scena larga e vasta e… vuota. L’intero Teatro India, in tutta la sua estensione con quinte incluse, diventa cassa di risonanza per il suono della viola di Luca Tilli e per la voce di Santoro. Lei è narratrice sola che va di pagina in pagina del copione e fa di tutte le voci una sola, la sua, alla ricerca di una monotonia viva e vissuta che viene di continuo modulata senza che il tono sordo e cantilenante di base venga mai perso. Un nodo di contraddizione nella voce, protratto e intervallato e aggravato, dal suono dello strumento. Una via sperimentale per ridurre una polifonia di voci a una sola e in quella voce cercare di ridare tutte le altre.
Pochi gli oggetti in scena. Un tavolo. Un libro. Una bottiglia e bicchiere. Una sedia. Un quadro in mostra e un quadro per terra, non ancora rilevato. Sul quadro in mostra la vera protagonista di questo riadattamento, diversamente da Ibsen non celata dietro il nome che la idealizzava, l’anitra selvatica, ma portata in prima persona, benché di spalle: Hedvig. È dopotutto lei la reale protagonista, lei è la messa in persona dell’ideale, è lei che cammina tra le parole di Amore e Affetto, ed è ancora lei l’ultimo quadro che viene alzato. Rappresenta un cencio di lenzuola al cui interno non sono avvolte le parole utilizzate, quelle con la lettera maiuscola, bensì il corpo stesso, quello di Hedvig. Perché è dopotutto vero che
Le parole sono finzione. Nove su dieci lo sono. Parlare è come mentire.
Tra quelle parole necessarie e menzognere appendiamo noi stessi, e quando il respiro viene a mancare, allora vi è il dolore, quello vero, per poco tempo, perché poi – ripete l’inguaribile idealista Greger – si trasforma in Dolore. Quello con la d maiuscola. E quindi la morte della figlia sarà
Una triste storia che tra qualche mese servirà per mettere in mostra Ekdal.
E così questo rimane di Hedvig: un cencio, e una triste storia.
Spettacolo andato in scena dal 25 al 27 novembre al Teatro India, Roma.
Hedvig da L’anitra selvatica di Henrik Ibsen – adattamento: Federica Santoro; musiche: Luca Tilli; disegno luci: Dario Salvagnini; quadri in scena: Ettore Frani; interpreti: Federica Santoro e Luca Tilli; produzione: Fondazione Fabbrica Europa per le arti contemporanee; fotografie: Maria Teresa Tenaglia.
MAI SACRIFICARE QUALCOSA CHE SI AMA A QUALCUNO. NON SERVE A NIENTE, NON DIMOSTRA NIENTE. E NESSUNO, MA PROPRIO NESSUNO, MERITA SACRIFICI, DI QUALSIASI NATURA. “PRIMUM, VIVERE”, ACCANTO A CHI DONIAMO IL NOSTRO AFFETTO INCONDIZIONATO, A MAGGIOR RAGIONE SE E’ UN ANIMALE, CHE CI REGALA IL SUO AMORE E CE LO DIMOSTRA OGNI MOMENTO, SUPERIORE COM’E’ ALL’UOMO E A TUTTI I SUOI LIMITI.