Non è mai chiaro dove si vada, quando si cammina sul tapis roulant. In teoria avanti dal punto di vista dell’uomo, in teoria indietro dal punto di vista dell’attrezzo, in pratica si rimane fermi sul posto. Metaforicamente, questa sarebbe il non-movimento tanto del protagonista Bartolomeo quanto del film che lo vede protagonista, Il principe di Roma per la regia di Edoardo Falcone. Come lui, il futuro sor principe e per ora sor Meo, si muove nel passato e così nel futuro per poi ritrovarsi al punto di partenza, soltanto con un passo in più compiuto, così la pellicola si muove nel passato della cinematografia e sperimenta nel mixare quel passato per creare del futuro. Alla fine però non si muove di molto dal punto di partenza: un film senza infamia e lode che non annoia né diverte con un buon ritmo ma grandi pecche. Due sue tutte.
Prima pecca: la volontà di unire due universi narrativi, l’uno tanto inglese e l’altro tanto romano, con il consequenziale indebolimento di entrambi nel prodotto ottenuto. Seconda pecca: far sembrare Roma ciò che non è. Roma è città eterna perché colleziona tragedie e follie dell’umanità, non è affatto città per favole – al massimo Favolacce – e pensare che si possa renderla tale facendole ospitare un racconto inglese è un grande errore. Né va del curriculum di Roma, né va del film stesso, idem per lui, il suo attore protagonista. E ce ne vuole per far sfigurare Giallini.
Bartolomeo (Marco Giallini) è di sangue rosso e lo vorrebbe blu. I soldi li ha, ora ambisce a quel titolo nobiliare che rappresenta il traguardo finale della sua scalata al potere, perché
Se nella vita vuoi contare veramente, o ti fai nobile o prete.
Per ottenerlo deve sposare la bella e nobile Domizia e per farlo ci vogliono diecimila ducati di dote. Non è che sia un problema, Bartolomeo è ricco, certo, mancano i liquidi perché metà Roma ha ‘buffi’ con lui e non è intenzionata a ridarglieli nel breve periodo, ma c’è il fido Aristide che sta giusto tornando dal Regno delle due Sicilie con forziere al seguito. È un tipo dalla testa apposto Aristide, se non fosse che scopre la moglie a letto con l’amante e la testa finisce in un altro posto, e cioè al patibolo, con tanto di ghigliottina a calare. Disperato, Bartolomeo finisce per interpellare una maga degli spiriti, ma si sa che uno spirito chiama l’altro e sor principe, anzi, sor Meo finisce tra Beatrice Cenci, Giordano Bruno e Papa Borgia. Ognuno di loro deve mostrargli qualcosa che appartiene al passato e poi al futuro perché il presente possa rivelarsi oltre i sorrisi dei servi e il tintinnare del denaro, e Bartolomeo possa infine vedere, vedersi e ravvedersi.
Edoardo Falcone è un regista che cade sempre in piedi nella commedia italiana. Se Dio vuole del 2015 ne era la prova. Conosce le regole del ritmo e della scrittura e così evita impasse e sabbie mobili da cui sia poi difficili uscirne, tuttavia con Il principe di Roma s’infila in un vicolo che è tanto comodo quanto effettivamente insipido. Mischiare Canto di Natale di Dickens con Il Marchese del Grillo di Mario Monicelli può in effetti suonare come una buona mossa, ma all’attacco pratico non funziona: tanto per dire, Scrooge è un disperato avido, il sor Marchese è uno scanzonato scansafatiche, nel sostituire l’uno all’altro, o nel provare a fonderli, il prodotto non è insomma funzionale a ciò che più importa: la trama e l’interesse che può suscitare allo spettatore.
A ciò si aggiunga poi un dettaglio non da poco: Roma non è città da porsi in secondo piano, e questo vuol dire che se si decide di ambientarvi una storia, quella storia deve subire il fascino di Roma o la città eterna si porterà via la trama e tant’altro dietro le quinte. Insomma, Il principe di Roma è una favola che della verve comico-drammatica romana mantiene soltanto il linguaggio e poco più. E nel quale Giallini veste un ruolo che sarebbe ricamato ad hoc per lui e che invece va a scapito di quella vivacità triste, scanzonata eppure drammatica – da ‘cazzone’ insomma – che è solita portare con sé. Il comico da solo non basta, ci vuole anche altro.
E così s’imparano due grandi lezioni: Dickens funziona alla perfezione solo sul suolo inglese, soprattutto quando l’avidità non è annacquata dal romanaccio e dalla comicità. Seconda lezione: non è Alberto Sordi che va a creare il Marchese del Grillo, è il Marchese del Grillo che chiede a Sordi di dargli vita. Viceversa è impossibile, per chiunque. E sì, ne abbiamo una terza: il sor, Marchese o Principe che sia, non lo si guarisce con la morale, bensì con la sua stessa carta: lo scherzo. Perché?
Perché io so io e voi non siete un cazzo.
In sala dal 17 novembre.
Il principe di Roma – regia: Edoardo Falcone; sceneggiatura: Edoardo Falcone, Paolo Costella; fotografia: Fabio Zamarion; montaggio: Luciana Pandolfelli; musiche: Michele Braga; interpreti: Marco Giallini, Giulia Bevilacqua, Filippo Timi, Sergio Rubini, Denise Tantucci, Antonio Bannò, Andrea Sartoretti, Liliana Bottone, Giuseppe Battiston, Massimo De Lorenzo; produzione: Lucky Red con Rai Cinema e in collaborazione con Sky; origine: Italia, 2022; durata: 92’; distribuzione: Lucky Red.