Il soccombente per la regia di Federico Tiezzi

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Non è che non abbiamo talento musicale, è piuttosto che ci manca talento esistenziale.

L’amore per l’infelicità come il disprezzo per l’Austria sono le due coincidenze che ti danno la conferma di star leggendo un testo di Thomas Bernhard, che nell’universo è secondo solo ai buchi neri per quanto riguarda l’appropriazione famelica della luce, vitale o fisica che sia, circostante. Fuor di ironia, Bernhard è un Kafka senza l’impiccio del dubbio. Laddove Kafka cerca di razionalizzare i sogni scrivendo l’assurdo, Bernhard applica la razionalità agli incubi e scrive di negatività. Le parole sue non nascono da una flusso di coscienza, piuttosto da un flusso di logica dei più scuri, che non si modifica nell’andare né si concede di tentennare. Per lui non c’è spazio per il dubbio, le parole mirano dritto per dritto al baratro e si portano con sé chi non vi può tenere testa, e diventa così Il soccombente. In questo caso, per la regia di Federico Tiezzi.

Una piramide, vista da fronte un triangolo. Un parallelepipedo, visto da fronte un rettangolo. A incrociarsi, i perimetri illuminati. Nel mezzo del loro incrocio cala uno schermo dal soffitto, novella spada di Damocle su un pianoforte, o meglio su colui che il pianoforte lo suona. Sullo schermo rimbalza la parola PENSAI. I tre attori si divincolano là sotto. Uno è il narratore, chiamato il filosofo; l’altro è Wertheimer, il soccombente; l’altra è una donna, la sorella del Soccombente. Il più importante della vicenda, tuttavia, non si trova lì, non è sul palcoscenico. Vive in assenza, come quando era vivo. Si chiama Glenn Gould ed è chiaramente

Il più lucido di tutti i folli!

Genio del pianoforte, Glenn ha conosciuto il filosofo (Thomas Bernhard stesso) e Wertheimer al Mozarteum di Salisburgo e lì i due non solo hanno ri-conosciuto la sua genialità, ma pure la loro incapacità a confronto. Entrambi hanno cercato di sopravvivere all’incontro: il filosofo ha smesso di suonare, l’altro ha continuato. Ma un giorno Wertheimer si suicida. Motivo? Il matrimonio della sorella? Di colei che «era tanto brava a girare le pagine»? O forse qualcosa udito un giorno, anni prima, al Mozarteum, provenire da una stanza, delle note… e un saluto nell’aria, appena dopo

Mio caro soccombente!

Il soccombente per la regia di Federico Tiezzi porta in primo piano il cerebralismo bernhardiano. Un overthinking macerante che fissato un punto non fa altro che vorticarvi intorno come l’acqua del lavabo una volta tolto il tappo. Il girare delle parole simile al rigurgito prolungato. Il vertiginoso parlato e il cerebrale rimestare vengono così sistemati in una scenografia geometrica – un triangolo/piramide, un parallelepipedo/rettangolo, mobilio fisso – che da una parte tenta di ingabbiarli e dall’altra li rilancia, diventando anch’essa, la scenografia, cosa pensata e intellettuale sopra tutti. Sopra musica e attori, o meglio le statue.

Come statue gli attori si “muovono” indolenti sul palcoscenico. Nuotano in un fiume nero nel quale svetta Glenn – per i neofiti della materia si ricorda che Glenn Gould è un pianista canadese realmente esistito, con il quale Bernhard cerca un contatto attraverso l’opera –, il genio che pone gli altri ai suoi piedi e a sua volta ai piedi della musica si pone. Ma la musica non è solo musica, o meglio, la musica che dovrebbe essere via di fuga dal mondo malato diventa essa stessa mondo malato e quindi vicolo cieco. L’arte della musica è così privata della sua umanità e le sue note annegate in un fiume nero di parole e pensiero, e quindi

Noi non viviamo e non abbiamo vissuto, siamo stati invece vissuti!

E piuttosto che uomini

Noi abbiamo voluto diventare pianoforti.

Dopo esser passato all’Argentina con Interno Bernhard, Bernhard torna a Roma e trova casa nel Teatro Vascello con uno spettacolo che si ripropone la sfida di mettere quel linguaggio caustico sul palcoscenico. Lo fa con una scelta scenografica importante che ha i suoi pro – essere decisa – e i suoi contra – di nuovo, essere decisa. Di per sé la ferma decisione non è un male, ma in questo caso si soffre un surplus nell’illuminazione – la gamma di colori finisce per mettere troppa carne al fuoco e annacquare i toni ottenuti con il gioco geometrico – e nella composizione scenografica stessa – era necessario lo schermo?. Insomma, il troppo stroppia. La riduzione e distribuzione del testo è invece buona e lo scambio tra i tre personaggi rende bene la forza disillusiva dell’autore come l’ironia scura che spesso contiene. La durata è il fiore all’occhiello dello spettacolo, calibrata in modo da non essere pesante, efficace per un pubblico meno esperto.

Appuntamento quindi al prossimo Bernhard, riflettendo su questa verve di pessimismo che bussa ormai di frequente alle nostre porte. Il pessimismo di Bernhard, che sconti li fa soltanto a una cosa: alla commiserazione. Giusto un vantaggio di un paio di metri, per poi rincorrerla e mangiarsi anche quella.

Fino al 26 marzo al Teatro Vascello, Roma.


Il soccombente di Thomas Bernhard; traduzione: Renata Colorni; riduzione: Ruggero Cappuccio; regia: Federico Tiezzi; scene e costumi: Gregorio Zurla; luci: Gianni Pollini; regista assistente: Giovanni Scandella; interpreti: Martino D’Amico, Francesca Gabucci, Sandro Lombardi; produzione: Fondazione Campania dei Festival – Campania Teatro Festival / Compagnia Lombardi-Tiezzi / Associazione Teatrale Pistoiese.

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