Delta di Michele Vannucci

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Con un impatto secco e insieme roboante come il suo titolo, dopo il passaggio in anteprima al Festival di Locarno dello scorso anno, arriva ora in sala Delta, opera seconda di Michele Vannucci, dopo la crudezza/ tenerezza del metropolitano dramma blues Il più grande sogno: anche qui , come in quel caso , c’è l’incontro/scontro tra due personaggi maschili sulla soglia di una virilità al crepuscolo, ridefinita e rimessa in gioco da peculiari condizioni sociali, ambientali, antropologiche. E se nell’esordio del 2016  era la periferia romana di polvere e cemento a fare da prima, o ultima, scena dell’esistenza post ego di un uomo appena uscito dal carcere, questa volta lo sguardo si allarga e si dirama across the river: il Delta del Po , nella sua collocazione di frontiera tra il Polesine di Rovigo  e il ferrarese, ripreso in panoramiche dall’alto nelle sue ramificazioni di acqua e lembi di terra come schegge frammentate di anime e corpi alla (de)riva.

Ma Vannucci ci tiene a non limitare tutto al solo duello senza sole in cui si trovano immersi Osso, un militante ambientalista che si batte contro l’uso e l’abuso della pesca predatoria e che ha fatto del proprio idealismo una disciplina e un dovere, ed Elia, la sua nemesi , che esercita una dilaniante propensione auto ed etero distruttiva nella pratica barbara del bracconaggio. Una furia legittimata forse dal senso di appartenenza alla terra d’origine, il ritorno a un quasi herzoghiano rapporto arcaico e primordiale con la natura viscerale e promiscua. Ci sono infatti due comunità che girano intorno a loro, che li guardano guardarsi, fronteggiarsi e inseguirsi , quella degli attivisti guidati da un etico e determinato fervore interventista e i Florian,  famiglia rumena di cacciatori di frodo provenienti da un Est Europa ancora devastato dall’onda lunga della catastrofe post ideologica , che ha smarrito il senso del bene collettivo in nome di uno spregiudicato interesse privato da clan familiare. A partire da questi reciproci posizionamenti, nel solco di un classicismo del cinema di genere (il conflitto tra bene e male, giusto e sbagliato, legalità e crimine – e le conseguenti sfumature e contaminazioni tra questi campi di pensiero e d’azione- che c’era  ad esempio nel western rivisitato in poliziesco/horror contemporaneo Distretto 13: le brigate della morte di John Carpenter), il film si sposta ambizioso verso un’ essenzialità di dialoghi, motivazioni e spiegazioni sempre più ridotti all’ osso, non più solo nomen omen di un personaggio della storia. La traversata è impervia, e forse non completamente risolta, perché alla ricerca di una sintesi tra molti elementi narrativi ed estetici, dalla sensibilità a tratti documentaristica su un problema con implicazioni sociali e politiche al respiro spettacolare di un cinema d’azione che si distingue nel dispiegamento di mezzi e possibilità con tanto di annunciata divagazione mélo. E  a un certo punto si prova a volare in alto, fino all’evocativa forza simbolica degli spazi palustri, le luci plumbee, i corpi trasformati e deformati. Non si raggiunge il livello di astrazione e insieme sostanza materica, forma che diventa contenuto, di Caccia sadica  (1970), capolavoro poco ricordato di Joseph Losey che portava ai minimi termini e alla massima espressione , una situazione di fuga e inseguimento, fino a farne l’impianto teorico di una pulsione scopica degenerata nel voler perseguitare e inchiodare chi scappa, sulla linea di un obiettivo che diventa step by step mirino che spara e occhio che uccide.

Osso ed Elia non diventano mai completamente e integralmente simboli disincarnati,  figure in un paesaggio (come recitava il più teorico e meno prosaico titolo originale del film di Losey) , che sembra non avere inizio e fine, ma rientrano anzi nella tradizione di un racconto , improntato ad un livido iperrealismo di peckhinpahiana antiretorica e tramontato romanticismo, di contro eroi che, spogliati del testo e del contesto, arrivano a toccarsi in una vitalistica ossessione di affermarsi l’uno sull’altro,  un conflitto che potrebbe ucciderli o salvarli   ( stessa alternativa contenuta nel sospirato e sospeso face to face/frame to frame tra lo sceriffo Al Pacino e il bandito Robert De Niro in Heat-la sfida, urbano e abissale western in noir di Michael Mann).

L’aspetto di una fisicità che cambia nel contatto profondo con il circostante ambiente misterioso e familiare trova ovviamente una cassa di risonanza efficace sul corpo attoriale di Alessandro Borghi, che fa l’ostico e antagonista Elia: con addosso il vivo ricordo della sembianze martoriate e prosciugate di Stefano Cucchi in Sulla mia pelle, continua ad essere uno dei pochi attori performativi di movimento, suono, sguardo, all’interno di una nostrana cinematografia, spesso troppo ripiegata sulla convenzione del guitto/guizzo da verbosa commedia dell’arte in chiave (melo)drammatica o satirica. E la sua corsa affannosa e ostinata in alcuni momenti ricorda quella ancora più spoglia e scarnificata sulla neve di un cristologico Vincent Gallo in Essential Killing, altro esercizio estremo su una presenza astratta e materica firmato da Jerzy Skolimowski.

Gli fa da controcanto e controcampo un Luigi Lo Cascio, più mimetico e meno istintivo nell’interpretare il personaggio di Osso , il cui non essere completamente a suo agio restituisce la titubanza e i dubbi  del suo paladino della giustizia che rischia di diventate giustiziere, un attimo prima di osservare sullo sfondo o di partecipare sulla prima linea. Si avverte la presenza di un apparato produttivo, la Groenlandia di Matteo Rovere,  che vuole puntare il focus, in controtendenza rispetto ad una filmografia italiana  anemica e minimalista, su opere in bilico tra identità autoriale e consenso popolare ,  sperimentazione visiva e solidità narrativa. Certo, la sensazione di aver visto un qualcosa che forse ancora non c’è in interezza e in integrità,  nell’attesa del sol dell’avvenire di una rivoluzione cinematografica ancora in fieri, prevale sul sentimento di una totale e appassionata adesione. L’entusiasmo è più potenziale e teorico, e si resta a scrutare tanti piccoli emissari di un fiume che non riescono a sfociare nel mare magnum di una visione espansa e alternativa, pur facendone intuire le traiettorie e le possibilità.

In sala dal 23 marzo 2023


Delta –  Regia: Michele Vannucci; Sceneggiatura: Massimo Gaudioso, Fabio Natale, Anita Otto, Michele Vannucci; Fotografia: Matteo Vieille; Montaggio: Francesco Di Stefano; Musica: Teho Teardo; Interpreti: Alessandro Borghi, Luigi Lo Cascio, Emilia Scarpati Fanetti, Greta Esposito, Marius Bizau, Denis Fasolo, Sergio Romano; Produzione: Groenlandia, Kino Produzioni, Rai Cinema; Origine: Italia, 2023; Durata: 105′; Distribuzione: Adler Entertaiment.

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