Motto da una battuta pronunziata (più o meno) nel film e “sale della terra” di Jafar Panahi: «Non ci sono orsi qui, la nostra paura dà potere agli altri».
Incipit: Siamo in una cittadina in Turchia sul mare: un uomo cerca una donna che lavora in un bar come cameriera, le dice di uscire un momento e le consegna un passaporto evidentemente rubato e falsificato, invitandola con quello a fuggire in Europa, a Parigi.
E tu? – gli chiede la ragazza. Risposta dell’uomo: vai prima tu, salvati, io ti raggiungerò.
Lei rifiuta seccamente dichiarandogli che non potrà mai separarsi da lui e rientra di corsa nel bar…
A questo punto ci accorgiamo che la scena è quella di un film che si sta girando e che il regista, interpretato dallo stesso Jafar Panahi lo stava seguendo a distanza sul suo Mac ma ha perso la connessione che prova in varia maniera a ristabilire con l’aiuto del suo gentile padrone di casa. Lui, il regista, si trova, invece, dall’altra parte del confine, in uno sperduto villaggio iraniano, a Jabbar, a due passi dalla Turchia, dove ha affittato una stanza probabilmente lì nascosto alle autorità del proprio paese. Sta cercando, da remoto, di realizzare tramite questo escamotage il suo film telepilotando la troupe.
Qui inizia il clou di Khers Nist (il cui titolo italiano sarà: Gli orsi non esistono, distribuito da “Academy Two”) che nelle sinteticissime note di produzione viene definito come “due storie d’amore parallele. In entrambe, gli innamorati sono tormentati da ostacoli nascosti e ineluttabili: la forza della superstizione e le dinamiche del potere”.
La prima storia, dunque, è nella fiction del metafilm che abbiamo testé descritto e di cui seguiremo a tratti gli sviluppi; la seconda è, invece, quella che andremo scoprendo (ma il cui esito culmina solo nelle inquadrature finali e su cui è obbligo tacere) nel corso della narrazione primaria. Con al centro le inquietudini e le vicende, appunto, del protagonista – una figura alter-ego e autobiografica – un regista il quale, oltre a cercare di portare a realizzazione il suo lavoro, si trova involontariamente ad essere invischiato nelle beghe tribali del villaggio nel quale si è rintanato.
Un trentenne piuttosto iracondo e parecchio geloso si vuole sposare con la donna promessagli in un matrimonio combinato dalle due famiglie di origine (per altro in non ottimi rapporti – quindi anche un modo per appianare le loro divergenze) e accusa lo “straniero” Jafar di aver scattato una foto che rivelerebbe il tradimento della “sua” ragazza. Rivuole lo scatto a tutti i costi anche se il regista nega di averla mai fatta – dopo vari discussioni ed incontri si arriva, davanti allo “sceriffo” della comunità (una sorta di capotribù locale), ad una sorta di rito pubblico secondo la tradizione del villaggio dove solennemente giurare sul corano la verità. E poi e poi e poi, seguendo i due livelli di racconto incrociati, si arriva a …
Com’è ben noto, il grande filmmaker Jafar Panahi che si era rivelato, già con le sue prime opere tipo Il palloncino bianco (1995) o Il cerchio (per altro Leone d’oro a Venezia nel 2000) come uno dei più massimi esponenti della New Wave iraniana, da più di dieci anni è costantemente in lotta con l’autorità del suo paese. Tanto che attualmente è detenuto (da luglio di questo anno è stato messo in carcere per scontare una precedente condanna a sei anni) e ha costantemente girato i suoi ultimi film in (semi o totale) clandestinità, per esempio Taxi Teheran (Orso d’oro al Festival di Berlino del 2015) oppure Tre volti (Premio per la sceneggiatura a Cannes 2018). Ed infatti, per questo motivo, a Venezia non potrà essere presente di persona.
Anche Khers Nist, dunque, si situa in pieno sulla scia della passata, estremamente brillante filmografia di Panahi, anche se, molto personalmente e alla prima visione al Festival, lo riteniamo un po’ meno riuscito dei precedenti.
Intendiamoci, però, si tratta sempre di un grande e potente lavoro che per altro risalta e di molto rispetto alla media molto depressa del mediocre Concorso veneziano di questo anno, ma ci è apparso a tratti più macchinoso e meno spontaneo del consueto, forse anche per colpa della sua esplicita struttura metalinguistica (l’abusato grimaldello del film nel film). Tutta la parte nel villaggio iraniano resta, invece, sempre fresca, bellissima, a partire dalle metafora del titolo (No Bears è il titolo internazionale) a cui fa riferimento la battuta a cui accennavamo nel motto iniziale.
E comunque se, come sapremo a breve, vincerà un premio alla Mostra, ciò non sarà dovuto unicamente al bonus politico nei confronti di un regista che combatte coraggiosamente e in prima persona per i diritti civili e la libertà d’espressione in un paese dominato da un regime cieco e brutalmente, violentemente repressivo.
In sala dal 6 ottobre
Khers Nist (Gli orsi non esistono) – Regia e sceneggiatura: Jafar Panahi; fotografia: Amin Jafari; montaggio: Amir Etminan; scenografia: Babak Jajaie Tabrizi; costumi: Leyla Siyahi; interpreti: Jafar Panahi, Naser Hashemi, Vahid Mobaseri, Bakhtiar Panjei, Mina Kavani; produzione: Celluloid Dreams; origine: Iran, 2022; durata: 106; distribuzione: Academy Two.