Il diciassettenne Daryn (Jaden Smith) vive in una bolla di sapone tenuta faticosamente in equilibrio dal padre Xavier (Cuba Gooding Jr.) e dalle sue ambizioni di gloria. La quotidianità del ragazzo è tutta una tabella di marcia, le giornate si susseguono sotto lo sguardo vigile dei post-it che il genitore appiccica su un’enorme lavagna, centro nevralgico delle amorevoli quanto ferree mura domestiche. In cima a valanghe di appuntamenti, lezioni, allenamenti, medaglie e gagliardetti svetta imponente il sogno o l’incubo di ogni adolescente americano: si tratta niente meno che della domanda per il college – mi correggo: per IL college. Trattandosi di Harvard, infatti, non si può che utilizzare il maiuscolo, così come in maiuscolo sono le visionarie aspettative che Xavier inscrive sul figlio. Il fantasma dell’università permea l’intera esistenza del giovane, cullandolo in una specie di confortevole limbo nel quale crescere è fortemente sconsigliato. Nella consueta corsa al prestigio sociale, una personalità non rappresenta altro che uno scomodo fardello: nulla deve rallentare la galoppata di Daryn verso il successo in quanto tale, verso i banchi di legge della facoltà più celebre e accreditata del mondo.
Il quadretto con cui il regista e sceneggiatore Mitja Okorn ritorna sul grande schermo (o, in tal caso, sul grande-piccolo palcoscenico targato Netflix) finirà ovviamente per essere annientato sul nascere. L’agente distruttivo si chiama Isabelle, misteriosa eroina dai capelli blu e dallo sguardo enigmatico, incontrata dal protagonista e dai suoi amici in occasione del concerto di un famoso rapper – e chi, se non l’indecifrabile Cara Delevingne, poteva interpretare il ruolo della misteriosa fata turchina pronta a trasformare Pinocchio in un bambino vero? Ma, come in ogni favola che si rispetti, c’è un ma. L’immancabile quanto fastidiosa avversativa si manifesta, qui come in altri film appartenenti al sottogenere “amori (in)felici”, tramite la malattia che incombe sul destino della nostra moderna Cenerentola.
A questo punto, il titolo Life in a Year già riassume l’intero arco narrativo: conosciamo il triste epilogo a cui andiamo incontro, sappiamo che non c’è incantesimo in grado di spezzare questo maleficio. Il punto, per l’autore, è farlo capire al suo principe azzurro. Nel castello-prigione in cui Daryn si trova rinchiuso non sono previste incognite, nella sua Versailles non c’è spazio per lo spettro di esperienze negative a cui l’esistenza, in un modo o nell’altro, ci predispone.
L’ombra del rigore paterno sovrasta le peripezie emotive che l’ingenua sventatezza del protagonista tenterà d’affrontare, senza però averne gli strumenti: prima che Isabel se ne vada (sempre che succeda davvero!), ci sono cose da fare, post-it da seguire, diverse tabelle di marcia da rispettare. L’agenda è, del resto, l’unico canale di comunicazione fra il ragazzo e il mondo circostante. Vivere, per Daryn, significa controllare gli impegni giornalieri, sezionare il tempo e trarne il massimo profitto (non importa se economico o sentimentale), riordinare l’entropia del fato scacciandone gli imprevisti con la stessa irrequietezza con cui si scaccia dal proprio ufficio un cliente indesiderato. Nell’atteggiamento del giovane non c’è malizia, l’hanno disegnato così, e Isabel lo sa. Perché le fondamenta di questo carcere mentale comincino a cedere dovremo aspettare la cena di Natale, forse il momento più intenso e meglio riuscito dell’intero lungometraggio: l’impenetrabile fortezza di Xavier non è altro che uno spauracchio per la sorte avversa, uno spaventapasseri progettato al solo scopo d’intimorire l’orrendo mostro dell’Imprevedibilità.
La logica del post-it vorrebbe sostituire quella della vita, riscattando l’essere umano dall’ingiustizia: ma l’universo funziona diversamente e la fortuna soffia il più delle volte in direzione avversa, trasportando i navigatori fra acque sconosciute. Così succede anche ai nostri Romeo e Giulietta, ritrovatisi a vagare da Pittsburgh a New York per il solo gusto del viaggio: non è un caso che l’ultima tappa del calendario di Daryn, l’incontro fra Isabel e la madre fuggiasca, fallisca miseramente, lasciando i due ragazzi nell’inquietante compagnia di un’autostrada notturna e di una spiaggia in cui i cattivi presagi trovano il necessario compimento. Il binomio (spesso trito e ritrito) composto dalle parole amore e malattia compare anche in un altro film recente, Babyteeth (https://www.closeup-archivio.it/babyteeth) di Shannon Murphy, dalle sfumature tanto più oniriche quanto più realistiche: la differenza fra le due pellicole è interamente compresa nell’occhio di chi scrive e di chi guarda, nella prospettiva attraverso la quale il racconto si dipana. Se la Murphy preferisce concentrarsi sull’isolamento infetto di una civiltà ormai morente, Okorn pare tutto proteso verso il suo eroe romantico e verso la sua paradossale iniziazione all’età adulta, che avviene mediante la morte di Isabel. Life in a Year è una fiaba a rovescio, un romanzo di formazione incompiuto, un coloratissimo dramma dai toni un po’ stucchevoli ma, in fondo, più brillanti e meno prevedibili di quanto non possano sembrare.
Cast & Credits
(Life in a Year); Regia: Mitja Okorn; sceneggiatura: Jeffrey Addiss, Will Matthews; fotografia: Quyen Tran; montaggio: Matthew Friedman; interpreti: Jaden Smith (Daryn), Cara Delevingne (Isabelle), Nia Long (Catherine), Cuba Gooding Jr. (Xavier), RZA (Ron), Chris D’Elia (Phil), Stony Blyden (Kiran), JT Neal (Sammy), Big Sean (sé stesso); produzione: Columbia Pictures, Overbrook Entertainment; origine: USA 2020; durata: 107’.