Living di Oliver Hermanus

  • Voto
3.5

È un viaggio nel tempo e nello spazio, l’ultima avventura cinematografica del regista sudafricano Oliver Hermanus: il film s’intitola Living, l’eroe è un impiegato comunale giunto all’epilogo della sua esistenza, il triste monologo qui messo in scena ha origine nella Russia di Tolstoj. Quello del congedo, del resto, è un tema di universale importanza e, forse proprio per questa ragione, la storia qui narrata è in realtà già stata narrata una volta, due volte, tre volte.

Il film si presenta, infatti, come un remake di Ikiru  (Vivere, 1952) una delle opere più notevoli e (con ogni probabilità) sincere di Akira Kurosawa: qui assistiamo al lento e inesorabile declino di un’anima, quella del Signor Kanji Watanabe altresì detto Capufficio della Sezione Civile di Tokyo. Vedovo da oltre vent’anni, rassegnatosi ad una quotidianità grigia e bigia, Mr. Watanabe (il Takashi Shimura de I sette samurai) vive rincantucciato nella sua stessa ombra, o in altri termini, nell’enorme sala d’attesa di un mondo-macchina che sembra andare avanti per i fatti suoi – il Giappone anni ’50, e forse anche il nostro Occidente globalizzato del Terzo Millennio, hanno tutta l’apparenza di trappole per topi. La scoperta di un male incurabile sveglierà il protagonista dall’ordinario torpore, spingendolo ad alzarsi dallo sgabello. Lo saprete meglio di chi qui scrive: Kurosawa non è uomo da lieto fine, né pare ben disposto verso la svolta salvifica che il cinema spesso richiede. Watanabe cambia semplicemente il posto in cui sedersi, generando un piccolo ma provvidenziale effetto domino sul microcosmo circostante.

Ikiru, a sua volta tratto dall’Ivan Il’ič (La morte di Ivan Il’ič, 1886) di Lev N. Tolstoj, è il più e insieme il meno nipponico fra i lungometraggi di Kurosawa. Lo sa bene Hermanus, che rimane in equilibrio fra Europa e Asia, fra il bianco e nero abbacinante di Yasujirō Ozu e il chiassoso technicolor di un melodramma americano, fra i vicoli sovraffollati della Edo postbellica e i palazzi londinesi ricolmi di gentlemen in bombetta. E dunque, arriviamo al dunque. Ovvero, al sosia occidentale di Kanji Watanabe altresì soprannominato Mr. Williams. Chi altri potrebbe interpretare un simile ruolo se non Bill Nighty, con il suo sorriso sbieco e il suo sguardo ombratile in cui sempre si cela – chissà come, chissà da dove – una punta di sarcasmo? E chi altri sarebbe in grado di riscrivere la sceneggiatura, se non il Premio Nobel Kazuo Ishiguro, che la sua Nagasaki non l’ha mai lasciata?

La trama rimane la medesima, di generazione in generazione, di continente in continente: Vivere, per l’appunto, significa lasciarsi trasportare dalle circostanze o, per non utilizzare frasi fatte, abbandonarsi al flusso naturale delle cose. Abbiamo l’impressione che l’Inghilterra dipinta da Hermanus s’inserisca a pieno in un paradigma definibile come orientale, ma applicabile anche al di fuori della vecchia-nuova Tokyo in cui si gioca a Pachinko e si lavora sepolti dalle scartoffie. Inoltre, il Signor Watanabe e il Signor Williams sono entrambi prigionieri di una ritualità arrugginita da cui non esiste via di fuga – Gran Bretagna e Giappone hanno in comune il principio, per così dire, “dell’inchino”: non si parla con il prossimo. Non si dà confidenza ai propri cari. E con la vita ci si rapporta seguendo una sorta di etichetta.

La malattia funge ovviamente da detonatore. Ma non nei modi e nei tempi che potremmo aspettarci, o che il grande schermo ci imporrebbe: una lezione, questa, che il Watanabe britannico impara a sue spese dopo aver trascorso una brutta nottata fra birre, romanzieri di quarta categoria e fatiscenti tendoni da circo popolati da odalische. Mr. Williams non è il tipo a cui si possa propinare la retorica ormai trita e ritrita dello “spassarsela”. Sarà piuttosto l’incontro con un’ex impiegata (qui la vivace Aimee Lou Wood) a risvegliare in lui il ricordo di una gioventù perduta – ma, perfino in questo caso, non nei modi e nei tempi che potremmo aspettarci o che il grande schermo ci imporrebbe.

Il rapporto fra l’anziano burocrate e la giovane fanciulla desta sospetti che giungono alle orecchie di una nuora decisamente poco empatica e di un figlio decisamente poco ricettivo, ma il Signor Williams prosegue per la sua strada, adagiandosi fra i giorni che ancora gli rimangono. A Londra e a Tokyo ci si preoccupa di separare ciò che è consono da ciò che non lo è, talvolta perdendo vista ciò di cui si avrebbe bisogno. Così, il divario anagrafico prende fisionomie potenzialmente scandalose, la società odierna non lo accetta perché vede la vecchiaia come una cicatrice da occultare: in tal senso, Ishiguro riprende le fila che Ozu e Kurosawa ci hanno lasciato in eredità.

Dopo l’esperienza fallimentare del Luna Park per adulti, Mr. Williams-Watanabe decide di tradurre in termini personali il significato che la parola “vivere” dovrebbe (o potrebbe) avere. La tradizionale svolta si consuma nell’anonimato, nell’ombra, nella sala d’attesa di quel mondo-macchina che ora non fa più così paura: mettendo a frutto la sua esistenza da capufficio, il protagonista si getterà anima e corpo nella costruzione di un minuscolo parco-giochi per bambini, al solo scopo di recuperare quell’infanzia ingenua e appassionata che la storia ha strappato all’uomo. La morte sopraggiunge sul bordo di un’altalena, nella solitudine di una sera d’inverno, come una mamma che richiama a casa il figlio reticente. Di Williams non se ne saprà più nulla: bisogna andare avanti.

C’è un bel film di animazione che si chiama I miei vicini Yamada e, in una certa misura, contiene la morale del nostro racconto russo, giapponese e inglese. La pellicola narra le quotidiane disavventure di una famiglia di Tokyo e si articola per aneddoti, come se lo spettatore sfogliasse un albo a fumetti. In uno degli episodi finali, il padre deve tenere un discorso a due novelli sposi, ma nella goffaggine che contraddistingue il suo essere niente più e niente meno di un uomo medio, egli dimentica al tavolo il bigliettino su cui si era annotato la sua bella orazione. Risolve con una parabola improvvisata che a Mr. Williams starebbe a pennello: “Nella vita non si sa mai che può succedere. Anche se ora, fino ad ora, dovesse sembrarvi che le cose procedano favorevolmente, d’improvviso capita anche di venire sbattuti nel baratro. Nella vita è la rassegnazione che è essenziale. Proprio il rassegnarsi, in quali che siano le circostanze, per non abbattersi, non spezzarsi, non scoppiare: per evitare ciò, quello è il segreto. Con questa espressione, che a prima vista sembra pessimistica, recitandola come un incantesimo, non resta altro che rialzarsi in piedi, nevvero?”

In sala dal 23 dicembre


Cast & Credits

Living  – Regia: Oliver Hermanus; sceneggiatura: Kazuo Ishiguro; fotografia: Jamie D. Ramsay; montaggio: Chris Wyatt; interpreti: Bill Nighy (Mr. Williams), Aimee Lou Wood (Miss Margaret Harris), Alex Sharp (Mr. Peter Wakeling), Tom Burke (Mr. Sutherland), Adrian Rawlins (Mr. Middleton), Hubert Burton (Mr. Rusbridger), Oliver Chris (Mr. Hart), Michael Cochrane (Sir James), Anant Varman (Mr. Singh), Zoe Boyle (Mrs. McMasters), Lia Williams (Mrs. Smith), Jessica Flood (Mrs. Porter), Patsy Ferran (Fiona Williams), Barney Fishwick (Michael Williams), Nichola McAuliffe (Mrs. Blake); produzione: Number 9 Films, Ingenious Media, Film4, BFI; origine: Gran Bretagna 2022; durata: 102’; distribuzione: Circuito Cinema.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *