Qualche anno fa, precisamente nel 2017, proprio alla Mostra di Venezia era stato presentato Dove cadono le ombre, diretto da una promettente regista, prematuramente scomparsa, Valentina Pedicini (1978 – 2020) in cui, basandosi sull’opera della scrittrice svizzera Mariella Mehr, si narrava del progetto di pulizia etnica portato avanti dall’associazione Pro Juventute dal 1926 al 1973, in Svizzera, ai danni del popolo Jenisch ovverosia una di quelle popolazioni nomadi definite “zingare”.
Ora con il suo ultimo film che era passato a settembre in Concorso al Lido di Venezia, anche Giorgio Diritti ha ripreso questo sconvolgente tema, lasciandosi ispirare, allo stesso modo di Valentina Pedicini, dalla letteratura e cioè dalla lettura di un romanzo civile, quello di Mario Cavatore Il seminatore (2004). Per costruire, in lunghi 175 minuti, la storia epica di un artista di strada, Lubo Moser – ben interpretato dalla star emergente del cinema europeo, il tedesco Franz Rogowski -, un mite giovane jenisch, dal carattere forte ma al tempo stesso allegro, che conduce una vita nomade sul suo carro, insieme alla famiglia formata dalla moglie Mirana e dai figli.
Siamo nel 1939 e i venti della guerra soffiano in modo potente. Quando il governo svizzero dichiara la mobilitazione dei suoi cittadini per paura di un’invasione nazista, anche Lubo viene strappato alla sua vita felice, alla fisarmonica e agli spettacoli di piazza da giocoliere per difendere i confini di una patria che non lo ama particolarmente. Alla notizia che la moglie è morta nel tentativo di impedire ai gendarmi di portare via i loro tre figli piccoli, che, in quanto “zingari”, venivano sottoposti al programma di rieducazione nazionale per i bambini di strada ( chiamata “Hilfswerk für die Kinder der Landstrasse”) e affidati a famiglie “normali”, inizia l’odissea dell’uomo. Lubo diserta, uccide e assume l’identità di un ebreo austriaco il Signor Reinhard, piuttosto losco, per comincia un’esistenza completamente nuova in cui vendicarsi di quanto gli è accaduto e ad iniziare a farsi strada nella società che conta, ben vestito, con i soldi e tanto di potente auto di lusso.

A questo punto della storia, però, le strade di Diritti (insieme al suo sceneggiatore Fredo Valla) e quelle del testo originale di Cavatore cominciano un poco a divergere. Infatti, a leggere la trama del romanzo Il Seminatore, Lubo “diventa un Don Giovanni involontario e involontariamente politico. Il suo piano è inseminare il maggior numero possibile di donne svizzere, per rispondere alla politica eugenetica con un gesto uguale e contrario, d’immensa portata simbolica: se la Svizzera gli ha tolto due figli con sangue zingaro, ne avrà in cambio duecento con sangue misto”. Questo aspetto diciamo di forte vendetta sessuale nel film è certamente presente ma non con la stessa forza simbolica, ci sembra, con cui è stato espresso dallo scrittore piemontese. Il protagonista sfrutta a suo favore l’indubbio fascino che possiede nei confronti delle donne – e qui Rogowski con i suoi baffetti e il labro leporino costruisce una figura e un’interpretazione notevole, gigioneggiando alla grande – ma lo canalizza soprattutto nell’intento difficile di riuscire a trovare le tracce dei figli perduti che la la Pro Juventute ben nascondeva.
Articolato in tre diversi momenti storici – che costituiscono i capitoli della vicenda – appunto, come si è detto, il 1939 e poi il primo dopoguerra nel 1951, con la conclusione della storia nel 1959, Lubo è un film nobile e complesso. Personalmente ci sarebbe piaciuto di più se questo tranche-de-vie su una figura di cui conosciamo gioie e dolori, successi e umiliazioni, l’amore con una donna italiana e la galera, fosse stato più sintetico. E ciò pur consapevoli che lo stile di Giorgio Diritti parte da una meticolosità cinematografica che abbiamo sempre apprezzato non ultimo, ad esempio, in Volevo nascondermi, una sorta di Biopic sul pittore Antonio Ligabue, presentato con successo al Festival di Berlino del 2020 e purtroppo andato deserto nelle sale per lo scoppio della pandemia.

Anche Lubo, resta, comunque, un’opera potente e di grande impatto emotivo, ma, forse, distribuisce le stesse doti stilistiche del precedente film su un arco narrativo ancor più dilatato, rischiando di perdere in mordente polemico e abbandonandosi, in alcuni momenti, ad una certa didatticità di scrittura cinematografica con il pericolo di cadere in un feuilleton pur di alto livello.
Oltre all’interpretazione in cui, come si accennava, Rogowski fa da mattatore, bisogna ancora evidenziare la notevole la resa scenica e l’attenta ricostruzione storica. E i cartelli finali con l’indicazione del fatto che la Svizzera solo nel 1978 ha riconosciuto i misfatti della sua politica discriminatoria nei confronti dei bambini prelevati ai loro genitori zingari, sono tanto giusti quanto necessari, come un monito a futura memoria. Con il razzismo e l’intolleranza che sta dilagando, male non fanno, anzi assolutamente il contrario. In definitiva, dunque è un film da consigliare di vedere.
In sala dal 9 novembre 2023
Lubo – Regia: Giorgio Diritti; sceneggiatura: Giorgio Diritti, Fredo Valla dal romanzo Il Seminatore di Mario Cavatore; fotografia: Benjamin Maier; montaggio: Paolo Cottignola; musiche: Marco Biscarin; scenografia: Giancarlo Basili; interpreti: Franz Rogowski, Christophe Sermet, Valentina Bellè, Noemi Besedes, Cecilia Steiner, Joel Basman, Filippo Giulini, Alessandro Zappella, Philippe Graber, Massimiliano Caprara; produzione: Indiana Production, Aranciafilm, Hugofilm Productions, Proxima Milano, Rai Cinema, con il contributo del Ministero della Cultura, RSI Radiotelevisione Svizzera SRG/SSR, con il sostegno di Ufficio federale della cultura Svizzera, Zürcher Filmstiftung, Regione Lazio, IDM Film Commission Südtirol, Film Commission Torino Piemonte, Trentino Film Commission; origine: Italia/Svizzera, 2023; durata: 175 minuti; distribuzione: 01 Distribution.