Nope di Jordan Peele – perché sì

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Lo scatto da Oprah

 

Prestarsi alla visione di un film di Jordan Peele è un atto di fede: ora che il regista di Get Out e Us ci ha “abituati” alla sua cinica visione della condizione sociale – soprattutto quella afroamericana -, immaginiamo sempre di sapere già cosa vedremo sul grande schermo, quando, in realtà, finiremo sempre per essere colti di sorpresa. È una questione di approccio all’oggetto filmico e, vien da sé, una propensione a lasciarsi ammaliare dalla storia raccontata.

Il cinema di Peele è meticoloso, esagerato, caustico, cannibalizzante. In Nope, soprattutto: la meraviglia sospesa di chiara matrice spielberghiana, l’afflato violento nei confronti della storia che strizza a suo modo l’occhio al cinema di Tarantino, il sublime riutilizzo personalizzato dello sfarzo visionario della fantascienza animata nipponica – come non percepire quei lampanti rimandi ad Akira, ma soprattutto agli inarrivabili angeli di Evangelion. Un intreccio di stili sfruttato per evidenziare il dramma nell’assurdo, la fatalità nella grottesca realtà dei fatti: perché Nope è soprattutto un episodio da dieci e lode di The Twilight Zone, è il grande ritorno del romanticismo della fantascienza vintage. È la vittoria del cinema degli artigiani sulla supremazia moderna dell’effetto (speciale) visivo; è l’idea che supera l’intrattenimento.

Eppure Nope è un lampante esempio di cinema d’intrattenimento, non a caso distribuito in piena estate, quando la maggior parte del pubblico non pensa ad altro che alle proprie ferie. Ma nel suo rivolgersi a un pubblico ampio, Peele costruisce il suo film più criptico e morboso, senza rinunciare ai temi portanti della sua idea di cinema – la sequenza di aperture in cui uno scimpanzé si ribella alla “prigionia” su un set cinematografico, uccidendo quasi tutti i presenti è probabilmente la più potente della filmografia del regista di New York e non è certo difficile coglierne il legame critico e narrativo sulla condizione-accettazione del ruolo degli afroamericani anche nella stessa storia della nascita del cinema.

Ma l’aspetto più coinvolgente della terza pellicola del regista afroamericano sta nella capacità di creare e mantenere atmosfere di assoluta sospensione sensoriale per lunghe sequenze. Mai prima d’ora Peele si era confrontato coi vasti spazi aperti, con gli echi di un western fulgido e ancora vivissimo nell’immaginario collettivo americano, con la paura di invasori nascosti non tra fitte boscaglie, ma tra banchi di nuvole bianchissime. Nope è anche un fanta-western che torna alle radici del Mito – parte tutto da Sallie Gardner at a Gallop (1878) di Eadweard Muybridgeper raccontare il valore del Mito; si fa metacinema alla ricerca dell’essenza di un’intrattenimento mai passivo, che sollecita lo spettatore a trattenere lo sguardo ancora un po’, anche se ciò che conta resta fuoricampo, anche se gli stessi protagonisti lo distolgono per sopravvivere al mostro. Quel mostro-alieno-mutaforma ma esteticamente “finto” all’interno, che è il cinema di massa insensibile e da cui non nasce nulla; che è la massa stessa che guarda senza nemmeno un briciolo di stupore quello che un tempo era considerata magia – l’intera sequenza dello sterminio durante lo show del businessman Ricky Park non lascia scampo a diverse interpretazioni in merito. E non c’è niente di peggio, ci dice Jordan Peele, della morte dello stupore.

 

In sala dall’11 agosto.


Nope – Regia: Jordan Peele; sceneggiatura: Jordan Peele; fotografia: Hoyte van Hoytema; montaggio: Nicholas Monsour; musica: Michael Abels; interpreti principali: Daniel Kaluuya, Keke Palmer, Steven Yeun, Michael Wincott, Brandon Perea, Wrenn Schmidt, Keith David, Terry Notary; produzione: Monkeypaw Productions; origine: Stati Uniti d’America, 2022; durata: 130’; distribuzione: Universal Pictures.

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