How does our revolution look like?
Hong Kong ha un clima subtropicale, e questo vuol dire che i giorni invernali sono miti e quelli estivi afosi, piovosi. Non è quindi insolito che le persone indossino impermeabili, può essere invece singolare se un impermeabile giallo precipita dal tetto di un centro commerciale. Giù un corpo riverso sull’asfalto, su uno striscione appeso:
(Il capo esecutivo) Carrie Lam ha ucciso Hong Kong
HK è una città chimera: teste occidentali in corpi asiatici. Non ha un passato cinese eppure ora è cinese, e anche adesso che è cinese, cinese non lo è del tutto: “Un paese, due sistemi”, così aveva stabilito la dichiarazione congiunta sino-britannica del 1979, prima che la Carta facesse la fine che la carta fa di solito: essere messa in una teca o divenire straccia. Quale ne sia il destino, valere alla fin fine poco e nulla. Perché Revolution of Our Time racconta proprio questo: come una città nata bastarda sia divenuta corpo estraneo occidentale nella bocca del comunismo, e come i figli di quell’Occidente, i giovani, non siano pronti a far inghiottire il boccone. E allora
Eravamo solo rimasti inattivi, come un vulcano dormiente, sull’orlo dell’eruzione. Tutti sarebbero scesi di nuovo in strada
Questo perché una rivoluzione non nasce dal niente e non finisce nel nulla. Una rivoluzione alla fine chiama l’altra. E se cinque anni prima erano gli ombrelli a essere sollevati, ora sono le auto a essere messe di traverso lungo le strade: la città deve essere bloccata perché la città stessa insorga. Ma una rivoluzione non è una rivolta, ha una combustione più lenta, soprattutto se a dover prendere fuoco è la polvere da fuoco bagnata di una cultura di aspirazione occidentale su suolo asiatico. Insomma, il ceto borghese è lento a imbracciare le armi poiché il tepore del benessere rallenta l’azione. Allora ci si divide tra chi non vuole alzare le armi, i non violenti, e chi capisce che di azione, invece, c’è bisogno, i Valiant. E i Valiant sono soprattutto loro, i giovani. Perché
I giovani sono scelti dal tempo? No, noi abbiamo scelto che sia il nostro tempo
E la rivoluzione cambia volto. O forse un volto lo assume. Be water è la strategia: di fronte a una polizia corrotta evitare lo scontro diretto ma poter giocare sulle vie di fughe per muovere lo scontro su quella scacchiera metropolitana che è la città stessa, tra grattacieli autostrade traghetti. Pedoni, torri, alfieri, cavalli non si muovono però a caso. Siamo negli anni ’20, del XXI secolo però. Non più tempo per dispacci o messaggi nascosti, è tempo invece di gruppi su Telegram e messaggi via WhatsApp. Perché se sono sempre i giovani a combattere le rivoluzioni, i giovani portano il loro di mondo, quale sia in quel dato tempo. E così
la mentalità del videogame viene applicata al mondo reale.
A ogni giocatore tocca un ruolo: i curatori curano i maghi creano molotov i tanker stanno in prima linea, spopolano i nickname (Snake, Dad, Mum) per non essere riconosciuti, si ricoprono i muri di post it (Muro di Lennon). Be water, di nuovo, e non solo nei movimenti, bensì nell’identità dei rivoltosi
Questo movimento non ha un leader. Ognuno è nessuno, e nessuno è tutti. È la rivoluzione dei nostri tempi.
E se i giovani sono la scintilla insistente, la polvere, quella bagnata perché adulta, perché umida dalla vita, prima o poi prende anch’essa fuoco. Per protezione. Per pudore. Per vergogna. Prima un vecchio, Uncle Chan, che vive dell’eco di una rivolta passata e che ora sfrutta le rughe per evitare le manganellate a lui e ai compagni. Poi tutti, loro, gli adulti, perché un’università, CUHK, e poi l’altra, PolyU, vengono messe sotto assedio e il confronto con la polizia, quella forza marcia che vede solo ciò che vuole vedere, non può essere posticipato oltre. Ora è questione di resistere, fino all’alba, per Hong Kong, e forse non solo: è dopotutto un mondo di chimere, e Taiwan è dietro l’angolo.
Revolution of Our Time segue le regole dei reportage giornalistici. Interviste ai protagonisti della rivoluzione (reali o chi per loro, attori) intervallate a riprese aeree, video ravvicinati, lontani, il cellulare-mdp a un passo dal manganello o tra le mani di chi gestisce molotov. La narrazione è cronologica, riporta gli eventi cruciali, la mentalità che ha animato la rivoluzione, e la descrizione delle varie entità che si sono aggiunte alla stessa. La testimonianza diventa così totale, completa. Pecca tuttavia di ritmo nonché di lunghezza nel tentativo di voler essere più chiara possibile, ne risulta un lavoro prosastico che riesce comunque a portare a un crescendo verso il finale, quando il conflitto si fa più duro e le speranze della città risultano spezzate e l’impressione che sì,
Una forza così piccola riesce a resistere contro una così grande oppressione
ma forse l’oppressore mai vi si è impegnato del tutto perché il finale è stato scritto, e in aiuto alla vittima nessuno si è realmente mosso.
Fuochi per celebrare i settant’anni di un partito, quello comunista cinese, fuochi per sparare lacrimogeni contro la folla di dissidenti. Le due immagini sono differenti, eppure sono lo stesso. Un uomo, il viso non dissimile da quello Winnie the Pooh, avanza in tripudio tra la folla rossa. Un ragazzo, la maschera antigas e il cappuccio nero calato sul volto, nelle strade di HK si porta il cellulare all’orecchio e promette
Sì, mamma, stasera sarò a casa per cena
Perché la Storia corre, ma a fare i conti con essa, e non scenderne a patti, è sempre lei: la gioventù. Qualcosa deve pur significare: se coloro che sono disposti a scendere in strada per protestare, siano anche coloro che devono rimanere continuamente inascoltati. Ancora oggi, come ieri. E non abbiate l’impressione di essere additati.
Lo siete.
In sala dal 30 giugno
Revolution of our time – regia: Kiwi Chow; produzione e distribuzione: Hongkongers; origine: Hong Kong, 2021; durata: 152’; distribuzione: Hongkongers.