Frankie è un ventenne come tanti, cresciuto nell’incuria selvaggia della banlieue newyorkese. Il regista indie Clarence Fuller, alla sua opera prima, ce lo presenta come un James Dean che non ce l’ha fatta, ed è rimasto fino ad ora accartocciato all’ombra di uno skate park. Fuma continuamente, lo sguardo malinconico rivolto ai ragazzi che corrono sulle biciclette. Il tempo attorno a lui pare che sbadigli, le ore non passano mai, la routine giornaliera si consuma fra i pertugi in cui i clienti attendono la loro dose quotidiana di hashish, cocaina e pasticche salvavita. A casa è un disastro: i litigi con la sorella alcolizzata fanno ormai parte del mesto trantran, non ci sono soldi nemmeno per il ketchup sulle patatine. Genitori non pervenuti: madre deceduta (probabilmente di overdose), padre all’ultimo stadio della tossicodipendenza. L’unico faro di speranza sembra essere il nipote Sean (Cree Kawa), troppo amabile e troppo intelligente per lasciarsi andare del tutto. Vediamo strade, automobili che sfrecciano, foreste d’asfalto in cui regna la solitudine, tavole calde colonizzate da cinici di professione, gente che fuma, gente che beve, gente che si minaccia. E, di tanto in tanto, udiamo uno sparo.
Come Frankie, non siamo molto convinti: più che un suburbio, la Grande Mela di Fuller è uno sciccosissimo esempio di street art per giovani Banksy del maxischermo. La cinepresa indugia su Hopper Penn (qui nei panni del giovane eroe in cerca di redenzione) che si trascina come un cucciolo ferito fra le vie della metropoli. Brevi istantanee ci raccontano l’incontro con Jane (Zoë Bleu Sidel), una Giulietta armata di reflex e frangia sbarazzina. Scatta l’amore impossibile: lei è benestante, sogna d’iscriversi al college, ha perso l’udito ma ha guadagnato punti in sensibilità e grazia. Lui tenta di uscire dal vicolo cieco della sua esistenza, ma non è facile – e via di altre carrellate lungo i marciapiedi della City, lo sguardo malinconico rivolto al proprio destino. Miseria e disperazione vengono estetizzate fino a perdere ogni significato: di nuovo, non siamo convinti.
Presentato in anteprima lo scorso autunno alla Festa del Cinema di Roma (sezione Alice nella Città dove ha vinto la prima edizione del Premio Corbucci), Signs of Love è una favola moderna – nulla più. Frankie è a caccia di un riscatto, lo si capisce fin dalle prime inquadrature. Vuole evitare che il nipote (a dire il vero, più un fratellino minore che un vero e proprio nipote) percorra il suo stesso itinerario. Quindi lo fa studiare, lo porta in piscina con la bella Jane, lo rimprovera quando sgarra. Nel frattempo, il ragazzo tenta di ricostruire il rapporto con un padre perennemente strafatto, aiuta gli amici come può, commette piccoli furti a fin di bene (il ketchup sulle patatine e una bicicletta da corsa sono regali costosi), diffida dai veri criminali. Insomma, miseria e disperazione, ma fino ad un certo punto.
Ciò che davvero manca a Frankie, oseremmo affermare, è una buona sceneggiatura. La pellicola, infatti, si riduce ad una serie di polaroid sviluppatesi solo a metà: Patty, la sorella (nel film come nella vita, Dylan Penn), si sente male e viene ricoverata, ma il giorno dopo torna pimpante fra le mura domestiche e ordina al figlio di andarle a comprare del vino. Michael (Wass Stevens), il genitore tossicomane, racconta le sventure di una gioventù bruciata, ma lo fa ridendo in modo grottesco – più che con un vero drogato, ci sembra di avere a che fare con la macchietta di un drogato. Nel tentativo di salvarla da sé stesso, il nostro eroe rifiuta la candida Jane dicendo di non amarla (una balla a cui nemmeno lei riesce a credere). Non si capisce, poi, per quale motivo questa perfetta “ragazza della porta accanto” debba essere sorda – l’intento, forse, è quello d’insegnare al Rebel without a cause in questione un linguaggio diverso, più sincero e immediato rispetto al gracidio scurrile che regna nei quartieri di periferia. Tale intento, in ogni caso, rimane nella mente dell’autore. Durante un regolamento di conti, Frankie prende un mattone e lo scaglia sul cranio di Stefan (Voshon Mills), pusher senza scrupoli e sua nemesi per antonomasia. Ma, in vista di un duello finale, Stefan non muore: a questo punto, l’idea di realismo data dai piani sequenza e dal rallenty sapientemente dosato, va a farsi benedire.
La New York di Fuller (e di Frankie) si riduce, quindi, ad un agglomerato di fotografie color magenta, di dialoghi interminabili nei quali miseria e disperazione emergono soltanto in superficie, lasciandosi alle spalle le conseguenze del loro impatto sulla vita dei protagonisti. La redenzione giunge sotto forma di malinconico epilogo, con il protagonista che trova finalmente il coraggio di “rincorrere i suoi sogni” – di quali sogni si stia parlando, non è ben chiaro. Forse qualche indizio ci viene lanciato tramite le innumerevoli conversazioni estemporanee a cui l’intero film si abbandona, ma le parole si perdono in un profluvio d’immagini appena abbozzate. Il riscatto sociale arriva senza alcun preavviso concreto, tanto per mettere la parola “fine” alla fiaba. “Show, don’t tell” scriveva Mark Swan negli anni ’20: una regola, questa, che il regista dovrebbe appuntarsi per il prossimo futuro.
In sala dal 11 maggio 2023.
Cast & Credits
Signs of Love – Regia: Clarence Fuller; sceneggiatura: Clarence Fuller; fotografia: Eric Foster; montaggio: Philip Casias; interpreti: Hopper Penn (Frankie), Rosanna Arquette (Rosie), Dylan Penn (Patty), Wass Stevens (Michael), Zoë Bleu Sidel (Jane), Drew Moore (Mark), Shannan Wilson (Nancy), Cree Kawa (Sean), David Pridemore (Jarvis), Da’Jour Jones (Chris), Peter Patrikios (Tim), Jeff Arelus (Jimmy), Jahlil T Hall (Willy), Voshon Mills (Stefan); produzione: Enfant Terrible, Somewhere Entertainment; origine: USA 2022; durata: 98 minuti; distribuzione: Nori Film in collaborazione con Fice.