Gli ultimi giorni dell’umanità di Enrico Ghezzi e Alessandro Gagliardo

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Lo sguardo di Aura Ghezzi esplode dentro l’immagine di un vulcano che erutta: è questo uno dei momenti più impressionanti de Gli ultimi giorni dell’umanità, la fluviale, inclassificabile ed espansa opera concepita e, più che realizzata, diremmo partorita dalla collaborazione tra Enrico Ghezzi e Alessandro Gagliardo, concettualmente madri e non padri di questo film , vista la volontà dilatata fino allo spasimo di ricercare l’origine generativa di ogni forma di sguardo (privato, relazionale, cosmico, cinefilo). E in questa direzione “ostinata e contraria” quello sguardo di Aura, non solo sovraimpresso sulla lava (il fuoco che, distruggendo, ricrea in continuazione), ma presente anche in raccordi e momenti precisi a puntellare la multiforme natura dei materiali audiovisivi, si fa un controcampo più umano dell’umano; testimone di una biografia, quella di  Ghezzi nello specifico, che diventa anche storia della fenomenologia dello sguardo di ognuno di noi, di come si è costituito e formato nel tempo e nello spazio. Il prologo di un contagio che ora può avere una durata (200 minuti) in rapporto allo scorrimento orizzontale sullo schermo, ma non esauriente della verticalità prospettica e della vertigine (o dell’abisso?) dentro la quale le sequenze di cinema e di vita fanno cadere a picco, come (quello che sembra) un modulo lunare che si stacca da un astronave e si abbandona alla sua caduta nell’oceano (uno dei momenti di sospensione e di attesa, peraltro completamente insonorizzato, più lunghi che io ricordi di aver visto all’interno di un film).

E Alessandro Gagliardo si pone come portatore di uno di quei possibili sguardi generati dalla conoscenza e dall’incontro in primis con l’oracolo Ghezzi, che, apparentemente desacralizzandolo nell’asincronia della sua narrazione “Fuori orario”,  ha creato di generazione in generazione, a partire dagli anni’ 80, un culto non tanto intorno alla sua figura quanto alla sua filosofia di vedere le immagini di qualsiasi matrice, riassegnando loro il significato attraverso la scomposizione e ricomposizione  di un senso preciso e indeterminato al tempo stesso. C’è poi il più fragile e delicato piano personale, dove si consuma l’interazione con l’Enrico uomo, da tempo logorato da una malattia degenerativa che ha rimesso insieme corpo e voce, rispetto al modo nel quale appariva durante le maratone cinefile notturne su Raitre, in una condizione , per parossistica e amara contraddizione, di silenzio e immobilità. E bastano solo due potentissime immagini del Ghezzi di adesso a far porre una domanda: era necessario riprenderlo com’è ora?.

La risposta, se mai ce ne fosse una valida e possibile rispetto alla così fremente questione etica ed estetica posta da una tale scelta , è da cercarsi tra le pieghe del testo filmico, nell’ audacia di far vedere la stagione ipertrofica e vibrante della fisicità , della loquacità e della visionarietà del suo protagonista. Una presenza tanto assoluta e pervasiva da far sembrare una soggettiva libera indiretta anche le sequenze prese da altri film, alternate con la quotidianità degli  home movies; questi ultimi si focalizzano in particolare sul pedinamento puntuale  della videocamera sempre su di lei , Aura: in una delle prime sequenze casalinghe, Ghezzi la vorrebbe seguire fin dentro il bagno e lei lo implora di lasciarla in pace , chiedendo alla madre del perché “ il babbo mi debba filmare sempre”. Nell’inquadratura successiva, la giovane, insofferente Ghezzi, inconsapevolmente filmata dal padre attraverso la serratura della porta, è alla ricerca forse di un altrove, con quell’espressione estatica rivolta verso l’alto, mentre l’obiettivo/occhio all’esterno è desideroso di carpirne il mistero; un’interazione che offre una chiave di lettura tra le numerose immaginabili e scioglie ogni dubbio e pregiudizio. La pulsione scopica  si manifesta in principio e nella sua massima potenza (ecco perché ritornerà più volte anche il vulcano…)  nella connessione amorosa, sentimentale, erotica con chi è carne della nostra carne, trasfigurato poi nella forma della celluloide che brucia e con cui, ineluttabilmente, non può che essere messa in relazione, quasi in un comune destino di laico martirio; a questo proposito è particolarmente toccante la scelta di inserire le riprese fatte da Ghezzi durante l’incendio delle pellicole all’archivio del cinema egiziano a Torino.

C’è qualcosa di coraggioso e provocatorio rispetto al comunque presente afflato elegiaco, nostalgico , crepuscolare;  una continua messa in discussione e rivisitazione di un rapporto padre-figlia fondato , sia nel presente che nel passato, su uno squilibrio di percezione : se prima era Enrico ad ossessionare Aura, fin da quando, appena nata, ne voleva documentare ed eternizzare ogni risveglio, ogni broncio, ogni movimento , adesso è la giovane donna che può liberare il suo sguardo e contemporaneamente quello del genitore, prendere il peso delle parole e il centro dell’inquadratura, senza essere più confinata nel confine del voyeurismo paternale. Viene addirittura voglia di pensare che , tra le altre cose, stiamo assistendo ad un omaggio di Ghezzi alla figlia più piccola, la quale ha contribuito a dare sostanza emotiva e identitaria ad un immaginario altrimenti fantasmatico, speculativo, astratto.

     Enrico Ghezzi e Alessandro Gagliardo

Sarebbe sufficiente ciò per risolvere il rebus delle citazioni cinematografiche, letterarie e filosofiche e  comprendere dove si annida l’ essenza cosi ramificata e ambigua di Enrico ? è chiaro quanto sia stata  determinante la dialettica con il co-autore Gagliardo nella congiunzione tra analogico e digitale (intesi non solo come supporti tecnici ma come forma mentis dell’approccio e dell’elaborazione di un materiale d’archivio che si intuisce monumentale per lunghezza e quantità). C’è qualche scheggia di cinema altrui che si percepisce tanto significativa, come il Giulio Brogi che si aggira inquieto con una lanterna nella notturna campagna padana del bertolucciano La strategia del ragno, o il Ray Milland, profeta allucinato di una nuova era della visione (così radicale, oltre le cose e le persone, da risultare impenetrabile e impraticabile) in L’uomo dagli occhi a raggi X di Roger Corman (e poi il sogno più celebre che si tramuta nell’incubo della caduta,  ovvero l’inizio onirico di Otto e ½ ).

O magari Ghezzi si identifica con i mutamenti della materia prima solida e poi liquida con cui gioca l’equipaggio di un’astronave spazziale russa nell’assenza di gravità delle incredibili  riprese realizzate dall’astronauta Jean-Francois Clervoy. A sparigliare e soverchiare le visioni di chi è capace di arrivare fino ai limiti dell’universo basta però la pretesa spontanea e indomabile dell’ultimo figlio nato nella famiglia Ghezzi, Adelchi: in un filmato di quando era molto piccolo lo si vede occupare il campo visuale e lo spazio fisico del padre, del quale rivela non tanto un’improbabile attitudine materna quanto la fragilità e l’arrendevolezza  di fronte a un ‘esperienza totalizzante e invasiva come  la paternità; ancora una volta solo la visione, stavolta disarmata e non assediante, gli offre una prospettiva che  vorrebbe contenere insieme la strabordanza dell’esistenza e l’uscire dai bordi dell’inquadratura fino a sconfinare nel fuori campo.

In un ulteriore dialogo tra infinitesimale ed enorme, tra microcosmo e universo , si posiziona la sezione tratta dalla ripresa televisiva dello spettacolo teatrale di Luca Ronconi Gli ultimi giorni dell’umanità,  titolo con il quale Ghezzi-Gagliardo hanno voluto identificate anche il loro film nel sua totalità da apocalisse della visione : pur rappresentando, nella stupefacente simultaneità dell’azione scenica,  una comunità di individui stolti, ingannati  e sfruttati e ridotti alla stadio di cadaveri sul palcoscenico di una macabra passerella rotante, il testo scritto da Karl Krauss  e diretto da Ronconi sembra tornare ad un principio dello sguardo , che ne è specularmente anche la fine, la destinazione terminale e l’evocazione di un nuovo orizzonte. Un nucleo cosi fecondo nella sua ricchezza di linguaggi (cronaca, storia, filosofia, poesia)da essere il sunto e la summa della ricerca ghezziana, seppur il montaggio che qui ne viene proposto presenta alcune scelte discutibili ( o che, sempre ghezzianamente, si fanno mettere in discussione ). Stonano ad esempio, forse perché troppo assonanti e programmatiche rispetto a contenuto e forma ronconiani, le scene inframmezzate con lo spettacolo e prese da Il tunnel, un episodio di Sogni di Akira Kurosawa, in cui gli spiriti dei soldati morti perseguitano la coscienza del generale che li fece morire in guerra. E la perplessità è ancora più  forte verso un finale bello e sfacciatamente commovente, ma chiuso in una circolarità da eterno ritorno eccessivamente sublimante(anche solo raccontandolo si attutirebbe l’impatto visivo ). Ma forse in realtà, volendo negare il possibile sentimentalismo di un autore che ha sempre godardianamente decostruito  ogni linguaggio incluso quello dell’amore, siamo noi che avremmo preteso uno scenario alternativo, duro e puro, senza soluzioni, un flusso senza inizio e senza fine.

Basta invece individuare anche solo la tenerezza di un piccolo gesto nella sua integrità per  trovare una ragione per vivere e un pretesto per non morire.

In sala dall’8 maggio 

 


Gli ultimi giorni dell’umanità – Regia, sceneggiatura e montaggio : Enrico Ghezzi, Alessandro Gagliardo; fotografia: Renato Berta; musiche: Iosonouncane; interpreti: Enrico Ghezzi, Aura Ghezzi, Nennella Bonaiuto, Adelchi Ghezzi; produzione: Armando Andria, Gabriele Monaco; durata: 200 minuti; origine: Italia, 2022; distribuzione: Cineteca di Bologna.

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