Ogni pomeriggio, Andrew esce dal suo studio legale e si avvia placidamente verso la macchina. Il cielo, sopra i suburbi di una Melbourne accigliata e sognante, è sempre triste e incolore. Ci fa pensare all’Inghilterra, all’Europa e alle sue periferie uggiose. Di più non è dato sapere: David Eastal, qui giunto al suo primo lungometraggio dopo i corti The Father (2011) e Monaco (2015), fa dello spettatore un passeggero, un viandante immerso come per incanto fra i sedili posteriori di una multipla rosso fuoco. Rimaniamo dunque incastrati nella vita del protagonista come il topo nella morsa. Andrew è quel che si dice un colletto bianco, un avvocato di successo giunto all’alba dei sacri e temutissimi Cinquanta. Noi lo conosciamo soltanto nel breve e circolare tragitto che scandisce la sua intera esistenza, ovvero sulla grigia e trafficatissima autostrada che dall’ufficio lo riporta a casa: quanto basta, insomma, per abbozzare il timido ritratto di un essere umano.
Quella messa in scena da Eastal è una bizzarra e claustrofobica Sinfonie der Großstadt eseguita in chiave postmoderna: la pellicola si divide in più tempi e si articola in svariate voci, alternando silenzio ed entropia, dialogo e monologo, commedia e tragedia. Talvolta, infatti, il giovane regista s’adagia accanto ad Andrew e si lascia scivolare sui canali di cemento che scorrono nell’hinterland della grande metropoli: allora e solo allora il nostro white-collar depone la camicia per svelare i fantasmi del suo passato e del suo presente. Che sono, nell’ordine, una moglie tanto devota quanto estranea, una madre ormai ritiratasi nell’incerto limbo di una senescenza angusta e introversa, una fattoria ai piedi dell’immenso vuoto australiano che occhieggia sinistro ai margini dei radi insediamenti urbani. Sulla schiena di procuratore rampante, Andrew trascina un fardello memoriale d’impressionanti dimensioni: così emergono, fra un semaforo e un ingorgo, i ricordi dei genitori, la guerra, la famiglia paterna dispersa in Polonia, la lingua delle origini – un tedesco informe e lontano, biascicato di fronte alla videocamera di un tablet.
Si direbbe che il regista intenda mettere alla prova la pazienza e la facoltà di concentrazione che spesso (disse il saggio) il pubblico generalista non possiede. Invece no: è facile provare empatia nei confronti di chi non conosciamo, l’autore lo sa e ci apre un piccolo spiraglio uditivo sulle vite degli altri che altrimenti rischierebbero di scomparire nell’oblio. Non c’è nulla di più interessante delle conversazioni origliate al bancone di un bar, fra i corridoi di un edificio o, perché no, fra i sedili posteriori di una multipla rosso fuoco. Nel giro di tre ore che scorrono come fossero tre minuti, impariamo ad ispezionare l’anonimato e i suoi sorprendenti misteri, perfezioniamo la sensibilità che ci rende umani. Eastal ne è di certo consapevole, e si cala letteralmente nei nostri panni, rispondendo a monosillabi e lasciando che l’incognita “uomo medio” si sveli da sé, snocciolando le sue cifre segrete.
The Plains è il titolo dell’opera – non ne abbiamo ancora parlato, in quanto esso racchiude l’immagine-cardine dell’intero film, la fotografia impossibile a cui tendiamo senza nemmeno accorgercene: le pianure sono le vaste lande desolate che s’aprono al di là dell’asfalto, al di là dei raccordi, al di là dei cubi grigiazzurri altresì chiamati civiltà. Imprigionato nella sua macchina aziendale, Andrew fantastica una quotidianità diversa, più simile ad un enorme tavoliere che non ad una scatola per cavie. Questo mondo apparentemente immaginario è però esperibile soltanto in terza persona, attraverso l’occhio di un drone o lo schermo di uno smartphone: nessuno straniamento, siamo abituati a dirottare lo sguardo su fedeli intermediari. “You can’t capture that” sussurra il protagonista di fronte ad un crepuscolo viola scuro. Ma a noi di quel tramonto non rimane che un’istantanea sfocata. È vero: non siamo più in grado di comprendere cosa voglia dire guardare.
Gli unici istanti nei quali la cinepresa si stacca dall’irriducibile percorso lavoro-casa sono quelli racchiusi nello smartphone di un comunissimo eroe in giacca e cravatta. In un ultimo e toccante viaggio, difatti, David scorre l’album digitale su cui è impressa l’esistenza del suo amico sconosciuto: scorgiamo il rosso deserto che circonda il ranch, i laghi salati che appaiono e scompaiono come se potessero decidere se far parte o meno del pianeta Terra. Nessun luogo come l’Australia è più adatto a questo genere di poetica. Tali riprese s’inseriscono fra un movimento e l’altro, fra un pomeriggio e l’altro, dilatando il comune sentire: al tempo rotondo e cadenzato di Andrew Il Procuratore s’alterna il tempo senza tempo di Andrew. Alla parola e alla chiacchiera, per così dire, da bar si sostituisce un silenzio più eloquente di qualsiasi digressione – un silenzio spoglio eppure brulicante, effimero eppure immortale: un silenzio, insomma, in tutto e per tutto simile alle pianure che circondano Melbourne.
Cast & Credits
The Plains – Regia: David Easteal; sceneggiatura: David Easteal; fotografia: Simon J. Walsh; montaggio: David Easteal; interpreti: Andrew Rakowski, David Easteal, Cheri LeCornu, Inga Rakowski; produzione: David Easteal; origine: Australia 2022; durata: 180’.