Come una creatura proveniente da qualche antica leggenda rurale, la piccola Cait emerge dall’erba di un prato immerso nella verdeggiante campagna della profonda Irlanda, richiamata allo stato presente dalla voce non soave ma ruvida della madre. Comincia cosi The Quiet Girl, che il regista e sceneggiatore Colm Bairead ha adattato dal romanzo Foster di Claire Keegan, girandolo completamente in dialettico gaelico (An Cailin Ciuin è il titolo originale), cosa che ha permesso al film di concorrere nella categoria di Best International Feauture Film ai prossimi Oscar. Ed è un inizio che demarca già la duplice dimensione sulla quale l’apparentemente struttura lineare del racconto si sviluppa, in quanto Cait sembra oscillare in continuazione tra il mondo concreto e materico nel quale vive assieme alla sua numerosa, povera, ostile famiglia d’origine e quello squarcio di realismo magico dove si rifugia quasi in una rabdomantica trance, fino all’incontro, che sana questa frattura potenzialmente psicotica, con due anziani parenti: saranno loro a prendersi cura di lei durante l’estate precedente all’ennesima gravidanza della madre.
La ragazzina tranquilla è infatti percepita come una figura avulsa ed estranea non solo dai genitori e dalle sorelle, che la ignorano e la mortificano, ma anche dal contesto sociale della comunità contadina che Cait attraversa, quasi da invisibile o da ospite indesiderata, con il fardello della sua esistenza pre-adolescenziale. Chiusa nei silenzi e nelle pause di un’ inquietudine tutta interiore, Cait ci viene presentata già in un altrove che, paradossalmente, rispetto al senso di estraneità che trasmette all’esterno, le permette di accedere ad un legame profondo con la terra e la natura, e una intellegibilità e purezza di sentimenti e di intenti che trovano armoniosa corrispondenza nello sguardo avvolgente, luminoso e aereo del regista. Anche se, pur nelle classi proletarie e subalterne che dovrebbero essere meno formali e rigide, restano le maglie di un’ organizzazione sociale costituita sul predominio patriarcale, Colm Bairead sceglie un’altra angolazione, non quella più convenzionale del dramma a tinte forti: tutto è infatti permeato di un’ atmosfera morbida, vibrante di un pudico rigore, una zona bianca dentro la quale il primato della visione è restituito a Cait e sono gli altri ad essere percepiti nella loro frustrazione e aridità di individui isolati, privati di qualsiasi forma di immaginazione, abbrutiti da una condizione di indigenza e passività.
Una prospettiva che cambia con una lenta progressione sottotraccia quando Cait viene inviata, come se fosse un pacco postale, dalla partoriente e troppo indaffarata madre nella casa dei Kinsella, la coppia che prende in affido temporaneo e ribalta di segno lo spazio affettivo e relazione di quella ragazzina, inizialmente sperduta in un movimento di separazione non compreso fino in fondo e poi abbandonata nello stallo di un attesa indefinita. Proprio questa sospensione genera la rinascita di Cait, la possibilità per lei di immaginarsi e per noi di vederla rappresentata in una cornice diversa; e non intendiamo cornice solo in chiave strettamente simbolica, vista la presenza concreta di porte, specchi e finestre. Strettoie sulle quali, gradualmente, si apre l’orizzonte di un futuro e la libera espressione di pulsioni vitalistiche, fino a quel momento represse da uno status quo di limiti e costrizioni , con un cura millimetrica dei pieni e dei vuoti all’ interno dello spazio, e del modo nel quale Cait vi si posiziona.
La fiducia e l’amore, trasmessi nella ripetizione quotidiana di un gesto d’attenzione e di cura da parte dei vecchi e compassionevoli coniugi, non sono ne sottolineate ne enfatizzate (e l’uso del gaelico infittisce questa sensazione di intimità e confidenza), anzi vibrano dell’asprezza e dell’amarezza di un vissuto che verrà svelato senza colpi di scena o escamotages da mélo familiare, ma con un’aderenza alla verità tangibile delle cose nella loro essenza di segreto e di mistero, nel loro potere evocativo. Lungi dall’essere eternizzato in un’impressione da cliché cartolinesco o turistico, e senza cadere in un altrettanto facile lirismo estetizzante, il paesaggio si fa con onestà e autenticità riflesso della sensibilità delicata e dello spaesamento della protagonista, cogliendone, nell’impiego di una luce spoglia e di colori desaturati, la ricerca di una messa a fuoco, di una scintilla che faccia scattare in lei una scelta e non una rassegnazione. Nell’assenza di forzature in nome di una più misurata e partecipe contemplazione dei moti dell’anima , non si ricorre alla corriva dicotomia tra la famiglia buona e la famiglia cattiva, e non vengono espressi giudizi o forme di empatia in positivo o in negativo verso un padre o l’altro, magari costruite dalla volontà drammaturgica di creare una qualche artefatta catarsi. Da questo punto vista, The Quiet Girl ha una sua unicità nel corso lungo dei racconti di formazione adolescenziale cinematografici, dalla quale non è esente la sua collocazione geografica e linguistica, in quanto ontologicamente intrinseca ad una forma mentis, e , di conseguenza, ad un immaginario che si espande nello spazio-tempo di uno scarto e di una differenza.
Se la celebre corsa originaria di Antoine Doinel ne I quattrocento colpi (1959), la prima scena di ogni soffio al cuore, rappresentava la fuga da un coercitivo e conformante stato delle cose verso l’ignoto liberatorio ed esaltante dell’Oceano (con lo sguardo rivolto aldiquà e aldilà dello schermo cinematografico), Cait corre per ritrovarsi nel proprio corpo, per non identificarsi in una proiezione spettrale di un disagio o di un trauma rimosso (molto raffinato l’uso simbolico dei vestiti che indossa). Prevale il bisogno di andare in una direzione precisa, di percorrere al contrario la strada non più di un abbandono ma di un ricongiungimento, con un’emozione trattenuta che , in una volontaria povertà di mezzi espressivi, commuove senza strafare.
Perché è meraviglioso, parafrasando Dino Campana, preferire il rumore del mare; ma qualche volta è necessario abbandonarsi in un abbraccio che è già memoria e appartenenza, l’eco non troppo lontano di un focolare domestico.
In sala dal 16 febbraio 2023
The Quiet Girl (An Cailin Ciuin) – Regia e sceneggiatura: Colm Bairead; fotografia: Kate McCullough; montaggio: John Murphy; musiche: Stephen Rennicks; interpreti: Carrie Crowley , Andrew Bennett, Catherine Clinch, Michael Patric, Kate Nic Chonaonaigh; produzione: Inscéal, Broadcasting Authority of Ireland, Fís Éireann/Screen, TG4; origine: Irlanda, 2022; durata: 94 minuti; distribuzione: Officine UBU.