In occasione dell’omaggio dedicatogli dalla Festa del cinema di Roma, abbiamo fatto qualche domanda al regista e animatore Simone Massi intorno alla sua opera a partire dal suo esordio nel lungometraggio, Invelle, presentato nella sezione Alice nella città e già insignito del premio Carlo Lizzani all’ultima Mostra del cinema di Venezia
D) Vorrei iniziare affrontando il discorso della memoria, sia in un senso privato che collettivo: citando quello che diceva Morando Morandini a proposito della protagonista di Hiroshima mon amour (“trasforma uno stato,il ricordo, in un atto, la memoria”), mi sembra che Zelinda, Assunta e Icaro, i tre piccoli protagonisti di Invelle, attivino, attraverso la loro immaginazione, un processo dinamico di elaborazione e trasformazione del tempo. Come ti sei posto nei confronti di questo aspetto, intorno al quale si muove spesso la tua poetica?
R) L’idea era quella di far muovere tre generazioni all’interno di un piccolo spazio chiuso, un non luogo in cui ogni notizia arriva a fatica, in ritardo e da fonte incerta. I bambini non sanno, non capiscono e non possono giudicare il mondo dei grandi; tre negazioni di fila che spingono alla quarta, al non fare le domande. Ma i più piccoli hanno tutti i sogni ancora interi e l’immaginazione, la capacità di credere; sono capaci di cambiare quello che non va, di trasformare il tempo le cose del mondo. In questo lo sguardo dei bambini per me è perfetto perché, almeno nel cinema d’animazione, coincide con il mio.
Le tue animazioni sono attraversate da una sorta di vibrazione che sembra voler rendere la fragilità e la precarietà, ma anche la fremente vitalità, dei personaggi e dei paesaggi che racconti: puoi parlarci della tua tecnica di disegno e della sua resa sul piano espressivo?
Negli anni in cui lo studiavo il cinema d’animazione disegnato aveva due possibilità: la prima, più comoda e veloce prevedeva il lavoro su piani diversi, il soggetto in movimento (personaggio o oggetto che fosse) su acetato con il fondale fisso, disegnato sulla carta una volta sola. La seconda consisteva invece nel disegnare tutto quanto – personaggio e fondale- ogni volta, cioè in ogni singolo fotogramma e per tutta la durata della scena. L’impossibilità di disegnare le linee nello stesso punto porta alla vibrazione di tutto quello che c’è in scena, la pulsazione continua di uomini e cose. Sul piano teorico era una follia perché i tempi si allungavano a dismisura e perché la visione poteva risultare disturbante per lo spettatore, pubblico o giuria che fosse. Per me invece era una scelta pressoché obbligata intanto perché vedevo nel cinema d’animazione il mezzo e l’occasione per raccontare storie. E poi ero appena uscito dalla fabbrica, dalla catena di montaggio, non mi metteva pensiero niente. Avevo tempra, pazienza, gusto del provare e sperimentare.
Le tue opere sono in bianco e nero eppure toccate, direi puntellate, da macchie di colore (penso al rosso del foulard di Zelinda). Come intendi il rapporto bianco e nero/colore?
Ho sempre disegnato in bianco e nero, fin da bambino. Il colore l’ho provato ai tempi della scuola di Urbino e non mi ci sono trovato. Forse perché è arrivato troppo in ritardo e anziché essere naturale e spontaneo mi obbligava a un pensiero, a un ragionamento che era quasi traduzione o calcolo matematico. Immagini e visioni continuavano ad arrivarmi in bianco e nero, per cui ho scelto di continuare a disegnare così come avevo sempre fatto. Il colore compare di tanto in tanto, in generale non va oltre la macchia o il filo. Per me equivale a una nota alta, un rumore improvviso, uno sparo, un richiamo, un grido.
Spesso figure umane e paesaggi nei tuoi disegni si compenetrano come se fossero le une la continuazione degli altri. In Invelle ci sono oltretutto i diversi piani temporali che si susseguono e si intrecciano. Come hai lavorato a una struttura così stratificata?
Anche in questo caso: è un processo per me naturale, che viene da lontano. C’erano tre figure e tre storie ambientate in epoche differenti ma tutto era legato, parte e continuazione della figura e della storia precedente. Per cui sapevo già, in fase di scrittura, che il lavoro da fare non era molto diverso da quello che ho sempre fatto nei cortometraggi, nei passaggi fra scena e scena. Fra me e me li chiamo “ponti”, tecnicamente è piano sequenza, ottenuto tramite metamorfosi o movimento di macchina, una successione di immagini che permette di sorvolare il crepaccio dello stacco per arrivare dall’altra parte.
Nella società contadina che rappresenti in Invelle, ma anche nei tuoi precedenti cortometraggi emerge un aspetto arcaico e magico, in un certo senso quasi sacro nell’accezione pasoliniana del termine (penso al personaggio di Laura Betti in Teorema): senti che questa sensibilità ti appartiene e se si in quale modo la includi nei tuoi film?
Sono più che sensibile a tutto ciò che è passato e che muore. Quello della civiltà contadina è un mondo millenario che è morto alla svelta e senza grida o lamenti, è morto e basta. Io, come tutti, non ci avevo nemmeno fatto caso, preso com’ero da me stesso e dall’andare avanti. Ma è bastato voltarmi (ed è successo con “Io so chi sono”, nel 1998) per sentirmi addosso gli occhi di chi in questa vita mi aveva preceduto e adesso si era fermato. Stanze e spazi vuoti, una moltitudine di figure ferme, immobili, a guardarci senza dire niente: alla fine i miei film sono fatti di questo.
Il tuo tratto grafico sembra partire da un margine e da una indeterminatezza (i puntini neri che fluttuano) per dare forma e centralità a un’umanità dimenticata, emarginata e sfruttata (contadini, donne, bambini) in particolare durante le guerre e nel caos brutale dei periodi post bellici tra vincitori e vinti. Puoi raccontarci da dove viene questa necessità?
Lavoro con pastelli ad olio stesi su carta (fase che in gergo chiamo “inchiostratura”) e poi graffiati con sgorbie e puntesecche. L’ho trovato un po’ per caso e molto per necessità, dopo anni di ricerche. Sentivo il bisogno di una tecnica di disegno che fosse il più possibile onesta, cioè che tenesse conto di me e della mia provenienza. Una volta trovata è stato subito chiaro per me che quella dei graffi era, ancor più della tecnica giusta, l’unica possibile per raccontare il mondo dei vinti. Nel disegno in sottrazione la luce è una conquista, per tirarla fuori si è obbligati a scavare, a faticare, a sporcarsi le mani.
In Invelle rappresenti il passaggio traumatico da una civiltà rurale a una civiltà urbana avvenuto negli anni 60/70, quelli della cementificazione selvaggia del boom economico (altro fenomeno questo caro anche a Pasolini). Qual’ è la tua prospettiva storica su questa trasformazione e cosa pensi abbia provocato rispetto alla società contemporanea?
Rischio di scivolare su un terreno che non è il mio. Posso solo dire che le febbri e le corse all’oro non mi sono mai piaciute e continuano a non piacermi. Mi piace invece la lentezza, il valutare con ponderatezza quello che è bene conservare a dispetto di quello che invece va abbandonato. Ci penserei un miliardo di volte prima di estirpare o radere al suolo. Il progresso è inevitabile e nella maggior parte dei casi sano, a patto che non venga imposto per legge o che irrompa nelle vite degli uomini come un terremoto.
Tu hai lavorato anche con dei documentaristi, inserendo all’ interno delle riprese dal vivo sequenze realizzate con le tue animazioni, in alcuni per dare forma a qualcosa di irrappresentabile “live” (penso alla strage della famiglia palestinese ne La strada dei Samouni di Stefano Savona) . Pur calato in una dimensione onirica e fantastica, c’ è comunque un’ impronta fortemente realistica anche in Invelle. Che rapporto c’è in te tra queste due tensioni? (realismo e fantasia ).
Sono due aspetti che convivono, direi anzi che sono in simbiosi. Nel 2009 è uscito un cortometraggio che si intitolava Nuvole, mani e per me è stato molto importante, una sorta di piccola rivoluzione dato che l’animazione si appoggiava alle riprese dal vero. E’ stato un mio ex insegnante, Cristiano Carloni, a farmi capire quanto di buono stavo perdendo, rispetto al metodo di animare precedente. “Spezza il realismo”, disse solo questo ed è stato l’insegnamento più breve e memorabile che mi sia mai stato impartito. Invelle lo segue alla lettera, credo, visto che è per metà storia vera e per metà immaginazione, con un realismo che di colpo perde il filo o si spezza per diventare sogno e immaginazione.
Un’ultima cosa: qual’e’ il significato di Invelle per te oggi?
Per mio padre era l’area intorno casa, in alcuni casi forzava un po’ intendendo un salto in paese a fare cose di poco conto. Perché il non luogo, per poter essere tale, doveva legarsi anche all’azione. Che doveva essere “niente d’importante”, appunto. Considerata questa logica, mi pare che l’area si sia estesa notevolmente, rispetto al passato.
Per me Invelle sono diventati tutti i luoghi di transito, stazioni e aeroporti, alberghi e centri commerciali, uffici e sale d’attesa. Talvolta perfino città intere, posti che non vedo l’ora di lasciare per tornarmene a casa.