UTAMA – Le terre dimenticate di Alejandro Loayza Grisi

  • Voto

Quando si sente inutile. Quando non riesce più a volare e si sente debole

il condor vola fino al punto più alto della montagna.

E allora piega le ali, ritrae le zampe e si lascia cadere

giù fino alle rocce.

C’è un piccolo mondo antico, bruciato. Sarà il nostro, è il loro. Terra crepata dalla mancanza di pianto e che l’unico pianto lo ha per mezzo di un serpente d’acqua che la taglia a metà. Attorno a esso, un mondo fatto di vestiti dai colori sgargianti, flauti di pan soffiati, lama a zonzo e quechua piegati in due dalla sete. UTAMA – Le terre dimenticate, per la regia di Alejandro Loayza Grisi, racconta una terra che subisce colpe altrui – riscaldamento globale – e sul proprio terreno le vede amplificate all’inverosimile. Né urla né grida, piuttosto mormorii attraverso le parole smozzicate tanto di un vecchio che avanza nella splendida landa boliviana e tossisce polvere quanto di una vecchia che scruta il marito e prova a prendersene cura, senza versare una lacrima. Non si può d’altronde sprecare l’acqua, e poi loro appartengono a un altro tempo: quello di una volta, quello del condor.

Altipiano boliviano, giorni nostri. Sisa (Luisa Quispe) si sveglia ogni mattina, ultimamente prima del marito. È inusuale, è un fatto degli ultimi tempi, ma quando poi si sveglia Virginio (José Calcina) punta direttamente al suo gregge di lama: lui davanti, loro dietro trotterellanti, alla ricerca di un ciuffo d’erba, alla ricerca di una fonte d’acqua. Acqua però non c’è, non c’è qui e non c’è là, sulle montagne:

Il tempo si è stancato, Clever.

Clever (Santos Choque) è il nipote. È giovane e viene dalla città. Giunto sull’Altopiano lo accolgono i nonni, ma soprattutto lo accoglie una siccità devastante e degli occhi, quelli dell’abuelo (nonno), che soffrono il peso dell’età, di un segreto terminale e di uno screzio con il figlio, padre di Clever. I due però non litigano, ad alta voce. Al massimo fanno a gara per chi sta davanti quando portano al ‘pascolo’ i lama. Venite in città con noi, a vivere, chiede e insiste il nipote, questa è la mia casa, risponde l’abuelo, e anche

La pioggia sta arrivando.

Esistono pellicole lente, esistono pellicole maestose. Ed esistono pellicole umili. UTAMA – Le Terre Dimenticate è tutte e tre perché non ricerca il moto d’azione, né la forza dell’intreccio, ma conosce gli strumenti che ha a disposizione e li sa sfruttare. Fotografia di paesaggi enormi, di una bellezza raddoppiata perché strozzata, musiche evocative e variopinti (benché impolverati) vestiti tradizionali e, soprattutto, due personaggi, Virginio e Sisa, che portano sui loro visi – visi cotti, visi bruciati, visi arsi – i segni del tempo che fu e del tempo attuale. E quei visi, José Calcina e Luisa Quispe, li usano per comunicare con voce bassa e voce cantilenante, ricorsiva, senza che la si debba alzare perché vivendo insieme una vita lo spettro di toni è stato consumato e ridimensionato dall’utilizzo e dall’abitudine, e ora la familiare monotonia dei mormorii ha rimpiazzato grida pianti sospiri lamenti etc etc senza perdere affatto di efficacia o di emotività, anzi. Sono dopotutto una coppia cresciuta nella terra che si fa polvere, quella che prendi nella mano e scivola via lasciando vuoto il palmo.

Con tratti da documentario, per l’accuratezza nonché il rapporto tra mdp e l’ambiente boliviano che il regista Alejandro Grisi costruisce – con i lama in primis, l’osservazione svolta sul loro movimento li rende di fatto un personaggio a sé stante, tra l’uomo e l’ambiente –, Utama tocca il tema intergenerazionale, che va poi a braccetto con quello ambientale. Virginio rappresenta il piccolo mondo antico, Clever quello nuovo, e tra i due non può esserci comunicazione che non sia quella tradotta dalla figura di Sisa. È lei il punto di raccordo, la calorosa rammendatrice tra due epoche, ma poco può fare se una delle due epoche è ormai alla fine e, soprattutto, ha la consapevolezza stoica di esserlo:

E il condor non ha paura?

Certo che sì. Ciò che è importante che tu sappia, è che da quel momento

inizia un nuovo ciclo.

UTAMA – Le terre dimenticate è una pellicola umile e grandiosa. La regia e la recitazione sono asciutte come l’aridità che mettono in scena e in più occasioni lo spettatore è travolto dalla grandezza della natura come travolto lo è dalla secchezza che scava la gola dei personaggi e così della Terra stessa. C’è resilienza, estrema e infinita, perché Virginio è un ultimo e piccolo quechua in un paesaggio fatto per giganti.

Se andiamo via, le nostre terre saranno abbandonate al silenzio.

Dice, e il silenzio non è mai una buona cosa. Non è lo è per l’uomo, non lo è per il condor. Non lo è per entrambi. E il tempo non è così stanco da starsene realmente fermo come dice il nonno, avanza, e un giorno Virginio non ritorna. A cena Clever è a tavola con Sisa, finché la vecchia non alza lo sguardo dalla scodella di cibo:

Bene. Esci a cercarlo, figliolo.

E così, mantello e torcia, un grido interrompe la notte:

Abuelo! Abuelo! Abuelo!

È dopotutto sempre questione di aspettare la pioggia. Attenderla per sapere se dolce o amara, infine, sia.

Premio del pubblico al Festival del cinema spagnolo e latinoamericano XV° edizione (Roma 6-12 ottobre)

Dal 20 ottobre al cinema.


UTAMA – Le terre dimenticate regia: Alejandro Loayza-Grisi; sceneggiatura: Alejandro Loayza-Grisi; fotografia: Barbara Alvarez; montaggio: Fernando Epstein; suono: Federico Moreira, Fabian Oliver; interpreti: José Calcina, Luisa Quispe, Santos Choque; produzione: Alpha Violet, Alma Films; origine: Bolivia, Uruguay, Francia, 2022; durata: 87’; distribuzione: Officine Ubu.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *