Con tre lungometraggi nell’arco di cinque anni, il trentottenne regista islandese Hlynur Pálmason sembra già essere entrato nel ristretto novero del cinema d’autore europeo, con una cifra stilistica riconoscibile, che provammo a individuare, allorché recensimmo il suo secondo film A White White Day – Segreti nella nebbia, arrivato in Italia poco più di un anno fa, con quasi due anni di ritardo rispetto all’originale. Adesso la distanza temporale si è clamorosamente ridotta, se si tiene conto che il film è stato presentato a Cannes a maggio del 2022 (nella sezione “Un certain regard”), a partire da lì in altri – se abbiamo contato bene – venticinque festival (fra i quali Toronto, Londra, San Sebastián, Chicago, Vienna e recentemente anche Torino) e, appunto, all’alba del nuovo anno viene distribuito nelle sale italiane. Il film – e già questo la dice lunga – presenta due titoli, uno in danese e uno in islandese, di identico significato, Terra di Dio (tralasciamo di riportare le due versioni originali), mentre Movies Inspired, che lo ha portato in Italia, ha optato, giusto per un altro raddoppiamento, ovvero inglese-italiano: Godland – Nella terra di Dio.
Perché è importante il doppio titolo danese-islandese? Perché, proprio di questo, fra le altre cose, parla il film: di una complessa relazione interculturale fra due luoghi non distanti eppure lontanissimi, come la Danimarca e l’Islanda, paese che al momento in cui il film è collocato, ovvero negli anni ’70 dell’Ottocento è ancora una colonia danese. E come si conviene a una colonia, la “madrepatria” non si può certo dire che sia particolarmente amata. E il disamore, il disinteresse si manifestano, in prima battuta, nel rispettivo rifiuto di parlare la lingua dell’altro.
Protagonista del film è uno stralunato, spiritato pastore luterano danese, incaricato da un suo superiore di sovraintendere alla costruzione di una chiesa in uno sperduto villaggio islandese. La missione, come si conviene, ha tutta l’aria di essere una prova volta a testare non solo la fede, ma – verrebbe da dire – la tenuta psichica del protagonista, che fin dall’inizio non sembra essere particolarmente solida. Tutta la prima parte del film racconta dunque il viaggio, autentica odissea in una terra sostanzialmente inospite, con paesaggi brulli, fiumi da guadare, vulcani minacciosi. In questo viaggio il pastore è accompagnato da una carovana di maestranze (che portano le materie prime per la costruzione), da una guida islandese, spigolosa almeno quanto il sacerdote, e da un interprete incaricato di fungere da tramite fra i due, fin quando l’interprete resta vittima di un incidente e i due, gioco forza, sono costretti in qualche misura a interagire, senza in realtà riuscirci mai. Questa prima parte del film in cui, come già nel precedente, Pálmason trae il massimo profitto dagli incredibili paesaggi islandesi, non senza indulgere a una certa qual estetizzazione (incrementata altresì dalla scelta del formato 4:3), potrebbe essere tranquillamente ricondotta al modello western, sia appunto per la predominanza del paesaggio sia per il confronto-scontro fra due modelli di mascolinità tossica.
Questi due aspetti li ritroviamo in realtà anche nella seconda parte, quella diciamo così stanziale, ossia quando il sacerdote, le maestranze e il burbero sherpa islandese arrivano a destinazione – una destinazione, lo apprendiamo solo a questo punto, che il protagonista avrebbe potuto raggiungere con assai maggior comodità arrivandovi via mare, ciò che ci fa comprendere che il viaggio del prete rivestiva un alto valore simbolico: viaggio di formazione, via crucis, apprendimento (?) interculturale e interetnico. Nella permanenza dei due elementi (centralità del paesaggio e mascolinità tossica) la seconda parte si arricchisce di un terzo elemento che potremo vagamente definire sentimentale o se vogliamo addirittura melodrammatico: il pastore s’innamora o comunque nutre un interesse (sentimentale? Fisico? Entrambe le cose?) per la figlia del fattore presso il quale alloggia, un interesse in qualche misura ricambiato. Ma il padre non è esattamente d’accordo con questa liaison, tanto che la situazione precipita.
Pálmason e Maria von Hausswolff, la direttrice della fotografia di origine svedese, sono bravi, a tratti bravissimi, alcuni piani sequenza sono memorabili, la continua negazione del controcampo e, di frequente, anche dei primi piani testimoniano di uno stile molto consapevole, a cui viene ad aggiungersi, come già nel film precedente, una continua riflessione meta-filmica, rappresentata dal Leitmotiv della fotografia, ché il pastore è un appassionato di fotografia e l’argomento nel film torna a più riprese, scatenando, verso la fine, anche derive drammatiche. La fotografia che ferma il tempo allude a un ultimo grande tema del film, ovvero la dialettica fra permanenza della natura e impermanenza dell’individuo di cui le ultime memorabili scene rappresentano un lucido e commovente paradigma.
In sala dal 4 gennaio 2023
Godland – Nella terra di Dio (Volaða land/Vanskabte Land) – Regia, sceneggiatura: Hlynur Pálmason; fotografia: Maria von Hausswolff; montaggio: Julius Krebs Damsbo; interpreti: Elliott Crosset Howe (Lucas), Ingvar E. Sigurosson (Ragnar), Jacob Lohmann (Carl), Vic Carmen Sonne (Anna), Ída Mekkin Hlynsdóttir (Ida); produzione: Snowglobe, Join Motion Picture, Maneki Films, Film I Väst, Garagefilm International; origine: Danimarca, Islanda, Francia, Svezia; durata: 138′; distribuzione: Movies Inspired.