Una storia del cinema d’autore americano dell’ultimo trentennio difficilmente potrà fare a meno di Steven Soderbergh (1963), giunto più o meno al trentesimo film, con momenti di altissima produttività (anche due/tre film all’anno) e momenti di crisi: nessun film fra il 2013 e il 2017, ad esempio.
L’ultimo film, disponibile su varie piattaforme da fine maggio, s’intitola Let Them All Talk è ad esempio un grande film perché molto banalmente dispone di tutti e tre gli ingredienti che tipicamente rendono grande un film: attori, sceneggiatura e regia. Gli attori in realtà, con un’eccezione, sono attrici: Meryl Streep (1949), Dianne Wiest (1948) e Candice Bergen (1946), alle tre si aggiunge una delle giovani star degli ultimi anni ossia Lucas Hedges, venticinquenne interprete di Manchester by the Sea, di Tre manifesti a Ebbing, Missuori e di Ben is Back.
La sceneggiatrice si chiama Deborah Eisenberg (è la compagna di Wallace Shawn, l’attore alleniano ultimamene visto in Rifkin’s Festival https://close-up.info/rifkins-festival/) ed è celebre (e parzialmente tradotta) come autrice di short stories. Questa a 75 anni suonati, è, a quanto pare, la sua prima collaborazione con il cinema. E che sappia scrivere non c’è dubbio; a voler cercare il pelo nell’uovo, diciamo che un paio di situazioni sono leggermente ridondanti.
Quel che la Eisenberg ha scritto è a tutti gli effetti un Kammerspiel che per sette ottavi si svolge su un transatlantico e che con l’eccezione di pochissime scene è tutto fatto di dialoghi. Ciò che accade è trascritto tutto nei dialoghi fra i vari personaggi, non ci sono, diciamo così, eventi esterni, che so io, giusto per restare ai transatlantici e a film famosi incidenti o disastri. La protagonista assoluta è Alice Hugues interpretata come al solito in modo magistrale da Meryl Streep, che come si dice in questi casi ormai potrebbe limitarsi a leggere l’elenco del telefono e sarebbe ugualmente spettacolosa. Alice è un autrice che ha vinto il Pulitzer ma che certamente ha superato da tempo il suo picco; adesso si dibatte fra mille tormenti creativi, continuando tuttavia a raccogliere premi e attestazioni in giro per il mondo, premi che quasi più non corrispondono a ciò che in questo momento sta producendo, ciò che finisce per provocare in lei un’inconfessata sensazione di colpa e di fastidio. L’ultimo premio in ordine di tempo le è stato assegnato nel Regno Unito, ma Alice non vuol (solo verso la fine capiremo: non può) volare e allora la sua agente le proporrà di andarci con la Queen Mary 2, il transatlantico che ogni settimana va da New York a Southampton. Per invogliarla le viene anche concesso di portare chi vuole – e lei sceglie due vecchie amiche del college con cui ha perso i contatti: Susan (Wiest) e Roberta (Bergen), nonché il nipote Tyler (Hedges).
Della vita privata di Alice non sappiamo nulla, niente compagni, niente figli a quanto sembra. Solo un’estrema dedizione al lavoro, con alterni risultati. A questi quattro personaggi nel transatlantico se ne aggiungono altri tre: l’agente stessa che si è intrufolata per riuscire a carpire a cosa mai stia adesso lavorando Alice e per far questo si avvicina a Tyler inducendolo a sperare chissà cos’altro, uno scrittore che è l’esatto contrario di Alice, un certo Kelvin Kranz che impiega al massimo quattro mesi per scrivere un romanzo e infine un misterioso signore dalla pelle nera che entra e esce dalla stanza di Alice, lasciando immaginare una relazione semiclandestina.
Al centro del Kammerspiel di Eisenberg ci sono temi squisitamente letterari che tuttavia assurgono ben presto a universali umani. Fra gli altri: quanto può uno scrittore sfruttare le vite degli altri ai fini della produzione di un romanzo? Può la creatività essere sottoposta alle leggi di mercato? È meglio continuare comunque a scrivere o limitarsi a un unico romanzo e accettare umilmente l’esaurimento della vena creativa (alla domanda la stessa Alice sembra dare una chiara risposta avendo elevato a proprio mito una sconosciuta scrittrice gallese che cita nel suo speech sul transatlantico, autrice appunto di un solo romanzo)? Qual è il rapporto fra letteratura di consumo e letteratura colta? Esiste una via di mezzo fra Omero e la letteratura popolare? Forse no, come sembrerebbe dimostrare il misterioso signore nero che dopo aver finito l’Odissea passa a leggere un’opera di Kranz? Ma la sceneggiatura funziona perché questi interrogativi, dicevo, vengono coniugati su un orizzonte antropologico molto più ampio: la vita, il successo, l’amore, il denaro, il rimpianto, il risentimento. Insomma: grandi temi.
Il film tuttavia non esisterebbe se Steven Soderbergh a livello di regia (e di fotografia e di montaggio: pur con pseudonimi maschili e femminili è sempre lui!) non avesse davvero dato il meglio di sé, con riprese e inquadrature mai banali e soprattutto mai stucchevoli (per esempio senza mai lasciarsi tentare da riprese dell’oceano etc.), con una direzione perfetta di attrici notevolissime. Insomma siamo in presenza di un gran bel film, forse la cosa più brutta, quasi banalizzante è proprio il titolo.
Cast and credits
Let Them All Talk – Regia: Steven Soderbergh; sceneggiatura: Deborah Eisenberg; fotografia: Steven Soderbergh (as Peter Andrews); montaggio: Steven Soderbergh (as Mary Ann Bernard); musica: Thomas Newman; interpreti: Meryl Streep (Alice Hugues), Dianne Wiest (Susan), Candice Bergen (Roberta), Lucas Hedges (Tyler), Gemma Chan (Karen); produzione: Warner Max, Extension 765; distribuzione: HBO max; origine:Usa; durata:113’.