Parti di corpo umano sono state rinvenute presso un lago.
C’è una borsa ed è piena di soldi. Tutti la vogliono, ricchi sfondati e poveri in canna, per trovarla è sufficiente seguire la scia di sangue che lascia alle spalle. Da dove arrivano tutti quei soldi? Da qui, da là, ma è veramente importante saperlo? L’importante è che sia mia, che io possa prendere il primo traghetto per andare via, perché questo è un mondo umano ormai ridotto all’osso, ma non ci si disperi: di speranza ce ne è ancora, la puoi persino toccare con le dita. Almeno sotto forma di filigrana. Nido di vipere, per la regia di Kim Yong-hoon, è una commedia nera, un pulp cucinato alla coreana. Tragicomica in abbondanza, con una sottile linea di critica sociale che non dispiace, la pellicola richiama Tarantino come i Cohen di Fargo e Non è un paese per vecchi. E sapete cosa? Funziona e diverte perché è il linguaggio che conta. E questo è linguaggio fresco, genuino, per noi occidentali.
Un addetto alle pulizie apre un cassetto. Dentro c’è una borsa marca LV piena di soldi. L’addetto si guarda attorno per controllare se è stato visto. Forse sì, forse no. Lui, un altro uomo, è senza soldi e con un debito che il boss locale vorrebbe fargli pagare con una libra, o molto più, di carne. Lo scagnozzo del boss infatti
Va ghiotto per le budella.
Ma l’uomo ha ricevuto una soffiata: un suo amico delle superiori ha una borsa piena di soldi. Ecco un perfetto pollo da spennare. Lei è una donna che lavora in una casa di appuntamenti ed è picchiata ripetutamente dal marito. La coppia (indoviniamo?) ha debiti. Un giorno un cliente si perde per lei e decide di aiutarla a far fuori il marito per fuggire insieme. Non è che lei ne abbia la minima voglia, di fuggire con lui, s’intende, ma il marito ha un’assicurazione sulla vita che è una valanga di denaro, anzi, non esageriamo, una borsa di denaro. Il fatto è fatto, peccato che poi l’amante il corpo del marito lo seppellisce e quando già sta contando gli anni che le toccherà aspettare, ecco che il marito (in teoria morto e sepolto) apre la porta di casa
Che hai? Sembra che hai visto un fantasma.
Lei chiede aiuto a una donna con uno squalo tatuato sulla gamba. La donna è forte, decisa, affettuosa, e lo è veramente, almeno i primi due aggettivi, perché per quanto l’affetto, ecco, quello è già meno, ed è abbastanza chiaro quando la discepola la va a trovare per ringraziarla e lei la mette su un tavolo, pronta per essere fatta a pezzi. Senza rovinare, tuttavia, il tatuaggio che la giovane si era fatta per imitarla. Perché? Primo: perché un alibi serve a tutti. Secondo: perché
Quando ci sono i soldi di mezzo non ti puoi fidare di nessuno.
Kim Yong-hoon firma la sua opera prima e ci fa ritornare in una Corea del Sud di debiti e debitori, capi e scagnozzi, ognuno con la persona acqua alla gola e il tentativo disperato di stare a galla. Chi è più esperto, chi è un novello nell’arte della sopravvivenza, ovunque una profonda disuguaglianza sociale che Parasite (2019) ci aveva già insegnato essere caratteristica di una società capitalista orientale, paese in cui le contraddizioni dell’Occidente s’incontrano con quelle dell’Oriente e ciò che ne emerge può essere tanto fertile quanto disgraziato.
Disgraziato per loro, per quei poveretti alla deriva e con solo una borsa LV a cui aggrapparsi, fertile per il linguaggio che lo racconta. Perché il linguaggio è citazionale, le inquadrature richiamano spudoratamente la tradizione postmodernista americana, ma la novità sta nell’averle bagnate in salsa coreana e fare acquisire loro un sapore conosciuto e al contempo attuale.
Ne esce un film preciso a puntino, con la giusta contrapposizione tra colori caldi e quelli freddi, e una pioggia che si fa apice climatico della disperazione personale e collettiva. Ma dopotutto sotto la pioggia i personaggi stanno bene, così come stanno bene nella narrazione tragicomica che è il fulcro della narrazione: Parasite ci aveva insegnato a ridere quando si doveva piangere (e viceversa), per questo un sottofondo ironico travolge la storia e i personaggi quindi sono tutti tonti, o meglio, finti tonti tra loro, a credere che chiunque capiti ai loro occhi sia stupido. Eppure i personaggi non si rendono conto che, alla fine, sono loro sotto gli occhi di tutti, e prima di tutto della mdp, e la loro natura più teatrale, da commedia, e meno realistica in senso stretto, li ridicolizza disperatamente. E li tinge, a forza di stille di sangue, di nero.
Nido di vipere, titolo originale Beasts Clawing at Straws, non è un film originale nei contenuti, lo è invece nello stile e nel ritmo. Costruito su una scombinazione e ricombinazione efficaci del flusso narrativo, ci racconta in modo incalzante ma ordinato (per capitoli) le contorsioni delle nostre vipere all’ultima spiaggia. Lo fa con ironia, mai prendendosi troppo sul serio, al contempo facendoci intuire il disagio umano sottostante, di un mondo, quello coreano, meschino e opaco, bagnato e diluito, ormai ridotto all’osso. Un paese questo, il loro il nostro il vostro, che non rifiuta solo la vecchiaia, ma forse l’umanità stessa. Meglio quindi farci una risata (sofferta) per cercare di riempire il vuoto a perdere tragico.
Una delle ultime inquadrature è obliqua e riprende un uomo braccato che scappa alla disperata tra le viuzze di un mercato. I colori si fanno freddi e lui urla un
Pagherò, ti restituirò tutti i soldi!
che si perde nella lampeggiante notte coreana. Perché alla fine è sempre questione di soldi, per sperare non rimangono che quelli. Dopotutto, il nostro è un mondo in cui
Le Lucky Strike sono l’unica cosa che mi abbiano mai protetto, né Dio né gli antenati.
Al cinema dal 15 settembre
Nido di vipere – Beasts Clawing at Straws – regia: Yong-hoon Kim; sceneggiatura: Yong-hoon Kim; fotografia: Tae-sung Kim; montaggio: Meeyeon Han; musica: Nene Kang; interpreti: Do-yeon Jeon, Jung Woo-sung, Bae Sung-Woo, Yuh-jung Youn, Shin Hyeon-bin, Jeong Man-sik, Jin Kyung, Ga-ram Jung, Jun-han Kim (II); produzione: Megabox Plus M; origine: Corea del Sud, 2020; durata: 108’; distribuzione: Officine UBU.