Omicidio nel West End di Tom George

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C’era uno spettacolo teatrale e poi è arrivato il Covid e il teatro è stato chiuso. Storia di ordinaria pandemia a leggere le notizie degli ultimi anni, storia di straordinaria pandemia se si precisa che lo spettacolo in questione è andato in scena ininterrottamente dal 1952 al 2020 e che la piece teatrale era nientepopodimeno che partorita dalla mente di Agatha Christie. O almeno in parte, perché era stata la realtà a prestarle l’idea per Trappola per topi e poi il genio inglese aveva fatto il resto. Da quello, letteralmente dalla messa in scena de Trappola per topi all’Ambassords, Londra, West End, ha inizio Omicidio nel West End di Tom George: una pellicola piacevole, simpatica, capace di sfruttare cortocircuiti meta-, saltando tra realtà storica del tempo (compare Agatha Christie), realtà diegetica (il film stesso) e finzione (l’opera originale, appunto Trappola per topi), con una buona coppia di attori-detective, Saoirse Ronan e Sam Rockwell, e un cast d’eccezione a circondarli, che rilancia e, al contempo, annulla quella che è una grande verità:

è un giallo, no? Visto uno, visti tutti.

L’agente Stalker (Saoirse Ronan) e l’ispettore Stoppard (Sam Rockwell) sono chiamati al teatro Ambassadors per un omicidio. Giovane e intraprendente e (fin troppo) volenterosa lei, stanco e alcolizzato e sfiduciato lui, si ritrovano davanti a un cadavere letteralmente ‘messo in scena’. Su quale scena? Quella del dramma teatrale Trappola per topi, piazzato lì, sul sofà, mentre gli attori che su quel palcoscenico ci muoiono per finta sono in platea, a guardarlo. L’inversione di ruoli lascia un poco stupiti, ma tant’è: il morto c’è veramente, è il regista Leo Kopernik (Adrien Brody), uomo viscido e sgradevole, nonché regista della futura messa in pellicola della piece teatrale e all’occasione, appunto questa, vittima. Lo hanno colpito con una macchina da cucire, poi «con uno sci. Da lì in poi, la sua morte è stata tutto in discesa» commenta l’agente Stalker, riportando tutto sul suo blocchetto. Il superiore Stoppard la guarda inebetito, per la freddura, ma non c’è tempo da perdere: tutti, la produttrice Petula Spencer (Ruth Wilson) come lo sceneggiatore (il celebre sceneggiatore) Mervyn Cocker-Norris (David Oyelowo) non sono solo sospettati, ma potenziali vittime. Chi è stato? E chi sarà il prossimo? Il giro di vite si allarga oltre il teatro stesso, Londra e limitrofi, sino all’improbabile. La fonte di tutto. La casa della signora Agatha Christie.

Tom George si trasferisce dal piccolo al grande schermo, dalla BBC alle sale cinematografiche di mezzo mondo, e non lo fa con un capolavoro, tuttavia con un bel lavoretto, per certo. Regia svolazzante con abbandonante uso dello split screen, mdp estremamente mobile, scenografia fatata fino al sofisticato, ritmo sostenuto e una sceneggiatura che va in cortocircuito meta senza mandare a fuoco l’intera pellicola, insomma dimostrando perspicacia ma non troppo affinché lo spettatore possa sempre rimanere al passo e godere delle varie ricorsività tra prime e seconde finzioni. C’è infatti un mix metafilmico: a livello generale tra finzione teatrale-narrazione diegetica-realtà inglese di quegli anni, a livello più interno quando la pellicola gioca a rincorrere la sua stessa cellulosa, e il tutto si risolve in un sorriso che si dipinge sul viso del fruitore. Soprattutto quando sono i due protagonisti a fare la comparsa. E non solo loro.

Adrien Brody è di un viscido amabile nel suo ruolo di vittima, mentre Saoirse Ronan e Sam Rockwell formano una buona coppia che grazie alla precisa caratterizzazione dei personaggi e al loro incastro-non incastro funziona bene e sostiene l’intero film. Lei molto english, lui più detective all’americana (frustrato e attaccato alla bottiglia), avviano la pellicola a un humor che è british e quindi sottinteso, mai protagonista, eppure riversato per l’intera pellicola per mezzo di battute e accenni di capo e facce eloquenti. Il risultato è silenziosamente spassoso e l’aggiungersi dei personaggi di contorno, macchiette, e quindi minori e divertenti, fa il resto, con un finale di colpi e contraccolpi, tazzine e veleno per topi. E un colpevole da trovare, o da cui non farsi trovare.

Omicidio nel West End, in originale See How They Run – si aggiunga così la pellicola alla lunga lista di “film innocenti il cui titolo originale viene sfregiato senza apparente ragione che non sia quella boh” –, è innanzitutto piacevole. Un’ora e mezza trascorrono come un sorso d’acqua. Regia attenta, alla ricerca del vezzo efficace – con una cura che ricorda, forse omaggia, le composte inquadrature del Wes Anderson dei giorni addietro – Omicidio nel West End ha la grande capacità di non prendersi mai sul serio fino in fondo, ed è una fortuna, perché in tal modo rimane l’ancoraggio ai personaggi e il livello meta si mette al loro servizio, a quello della storia e così dello spettatore. Non è un prodotto eccezionale, ma fa ridere, all’inglese, senza esagerare e riproponendo un’opera di Agatha Christie con una bella pennellata di fresco. Perché dopotutto

È un giallo, no? Visto uno, visti tutti.

Ecco, forse no.

In sala dal 29 settembre


Omicidio nel West End – regia: Tom George; sceneggiatura: Mark Chappell; fotografia: Jamie Ramsay; montaggio: Gary Dollner, Peter Lambert; musica: Daniel Pemberton; interpreti: Sam Rockwell, Saoirse Ronan, Adrien Brody, Ruth Wilson, Reece Shearsmith, Harris Dickinson, Charlie Cooper, Shirley Henderson, Lucian Msamati, Pippa Bennett-Warner, Pearl Chanda, Paul Chahidi, Sian Clifford, Angus Wright, Jacob Fortune-Lloyd, Tim Key, Ania Marson, David Oyelowo; produzione: Searchlight Pictures; origine: USA, 2022; durata: 98’; distribuzione: Walt Disney Studios Motion Pictures

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