MedFilm Festival 2021: Mariner of the Mountains di Aïnouz Karim (Premio Espressione artistica)

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In un mondo nel quale vagare senza scopo è ormai di moda, viaggiarne con uno, di scopo, può essere una dolce eccezione, soprattutto se il cammino avanza nello spazio come sprofonda nel tempo. È quindi un viaggio particolare quello presentato da Aïnouz Karim  nel suo Mariner of the Mountains/Marinherio das montanhas, una ricerca dove il regista parte da casa per arrivare a casa, questa seconda diversa e complementare alla prima. In tutto ciò risiede lo straordinario mistero della ricerca identitaria nella propria origine, anche quando doppia, brasileira e algerina.

Presentato nelle “Proiezioni Speciali” del Festival di Cannes 2021 e ora al Medfilm Festival (dove ha vinto il Premio Espressione artistica), Mariner of the Mountains scorre attraverso un paio di occhi, uno della mdp, l’altro quello del regista Aïnouz Karim, riuniti ed entrambi affetti, per suo dire, da calentura. La calentura è lo stato anomalo solitamente attribuito ai marinari laddove la visione del reale viene distorta, il mare assume le sembianze di un prato verde e il sofferente deve essere al più presto fermato dai compagni prima che in quel prato si butti. In questo film, però, nessuno lo ferma il calientato, e per fortuna.

La storia è un resoconto febbricitante, un soliloquio diretto alla madre brasiliana, Iracema, a cui viene raccontata una Algeri ancora dormiente in una mattina di inverno. La meta non è però la capitale bensì un paesino della Cabilia  – una regione montuosa nel nord dell’Algeria – , Tagmut Azouz, luogo natale del padre algerino, e per arrivarci sarà necessario attraversare il paese, incontrare persone e indagare con unico e primo indizio il proprio nome, un nome locale portato da uno straniero. Gli incontri si moltiplicano, la curiosità esterna si alterna al riconoscimento formale («Per la prima volta non ho dovuto sillabare il mio nome»), le facce diventano prima amiche poi fraterne. Il viaggio arriverà a varcare i confini personali facendosi nazionale – il richiamo all’indipendenza algerina dalla Francia – nonché a superare i confini passati ricadendo nel mito algerino dove un bufalo emerge dal mondo sotterraneo per creare il mondo. Il risultato sarà un bagno catartico, prima del buio finale, unica occasione di fuga dal calore atavico.

Si è parlato di coincidenza di protagonista e mdp, entrambi ‘accalientati’, ed infatti la pellicola si presenta come un collage febbrile di video sgranati, non a fuoco, perfettamente a fuoco, panoramiche ad abbracciare la città e precisi quadri di malinconici vicoli, primi piani, figure intere, carrellate di fotografie e fotografie solitarie, mdp instabile come mdp fissa, pure abbandonata (sorte di time lapse) a riprendere stralci di vita quotidiana nei quali appare di sfuggita Aïnouz stesso. L’idea è quella del documentario, un documentario profondamente delirante nel quale la coerenza mai viene meno – tenuta insieme dalla voce fuori campo, da quella lullaby naturale che è il portoghese – e nel quale le tensioni psicologiche del regista vertono il colore delle immagini al blu, verde, rosso. C’è spazio anche per lo storico, i filmati della resistenza cabiliana, come per l’onirico, ricondotto ai vetrini di alghe rosse studiate dalla madre. È però l’apparire umano quello che sorprende.

Le persone si avvicendano davanti alla mdp, la scoprono e la osservano, cercano un timido sorriso prima di ricadere in uno stato da ‘fuori posto’ che apre le porte al loro intimo. Il regista cerca una parentela, un richiamo a se medesimo su cui fondare la propria identità, eppure vi trova altro («come ho potuto credere di essere parente di questi ragazzi?»), una condizione che va oltre il singolo, la famiglia e la nazione, come una signora ridente che gli chiede di «scattare delle belle foto della nostra Cabilia» e una vecchia consunta a cui non rimane che «aspettare il proprio destino». La ricerca allora si fa universale, almeno nell’eco che suscita nello spettatore, e in 98’ minuti di film si ha sempre più la sensazione che tutto il mondo sia paese, cioè Tagmut Azuz, e che a volte sia sufficiente abbandonare una mdp per un pomeriggio e farsi un giro perché al ritorno si ritrovi un cesto di frammenti umani ad aspettare.

Mariner of the mountains è un film universalmente personale, capace di partire da una singola ricerca identitaria, quella del regista, per poi toccare le corde di un’umanità che necessita dell’altro per sentirsi a casa e laddove lo spazio per la casa è condizione sufficiente come necessaria. L’uomo ha pur sempre bisogno di pagine geo-localizzate per scrivere il proprio lessico famigliare.

Nell’ultima fantasia poeticamente psichedelica, sulle note di Smalltown Boy dei Bronski Beat, il regista ci lascia con il bufalo mitico dei cabiliani che s’immerge nel mare fitto di alghe rosse: mondo paterno e mondo materno, alla fine, si sono ritrovati. È un altro colpo di ‘calentura’? È splendido.


Mariner of the Mountains/Marinherio das montanhas – Regia: Karim Aïnouz; sceneggiatura: Karim Aïnouz, Murilo Hauser; fotografia: Juan Sarmiento G.; montaggio: Ricardo Saraiva; musica: Benedikt Schiefer; interpreti: Karim Aïnouz; produzione: MPM Film, Big Sister, Watchmen Productions, Globo Filmes, VideoFilmes; origine: Brasile/Francia/Germania, 2021; durata: 98’.

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