Nel panorama distributivo italiano si fa fatica a trovare qualcosa di analogo a quanto è accaduto al regista islandese Hlynur Pálmason (1984). Dopo tre cortometraggi Pálmason si fa conoscere con il primo lungometraggio, presentato a Locarno nel 2017 dove ottiene con Elliot Crosset Hove (da allora suo attore di riferimento) il premio come migliore attore protagonista. Il film s’intitola Vinterbrødre, ossia Fratelli d’inverno. Il film viene presentato in numerosi altri festival in giro per il mondo e in alcuni, isolati, casi anche nelle sale (per esempio in Francia e a quanto pare anche negli USA, in Italia no). Tutto questo accadeva fra la fine del 2017 e l’inizio del 2018. Dopodiché Pálmason gira altri due ulteriori lungometraggi, ovvero, dapprima, A White, White Day presentato a Cannes (nella “Settimana della Critica”) e distribuito un po’ dappertutto, anche in Italia (da Trent Film), seppur con un discreto ritardo (ottobre 2021) e, in seguito, Godland, anch’esso presentato a Cannes, stavolta in “Un Certain Regard” e uscito subito dopo in molti paesi fra cui l’Italia all’inizio di questo 2023 per conto di Movie Inspired, i tempi si sono dunque accorciati.
Due film, gli ultimi, che nella non amplissima fetta di mercato dedicata al cinema d’autore europeo, hanno riscosso una buona attenzione da parte della critica e incassi poco più che dignitosi: 54.000 euro il primo, 159 mila euro il secondo. Adesso, la Trent Film che aveva distribuito A White White Day decide di recuperare il primo lungometraggio, ovvero quella che tecnicamente si chiama la backlist, adottando una traduzione inglese ovvero Winter Brothers – a cui è stato aggiunto il sottotitolo un po’ pleonastico di Una storia di mancanza d’amore – che dunque esce in Italia ben sei anni dopo la sua prima uscita internazionale a Locarno. Non sarebbe nostro compito esprimerci sulle scelte distributive, ma non si può negare che l’idea di recuperare il primo film di Pálmason non ci pare del tutto convincente, anzi un po’ stravagante, soprattutto se si tiene conto che il film di esordio presenta tutte le caratteristiche dell’opera (d’autore) d’esordio, è un film estremo ed auto-compiaciuto in cui, in questo caso, Pálmason dispiega tutte le caratteristiche che nei film successivi ritroveremo magari secondo una modalità un po’ più customer friendly, anche se nessuno dei due film seguenti può essere considerato particolarmente commestibile, come si potrà notare leggendo o rileggendo le due recensioni prodotte tempo fa da chi scrive.
Oltre alla predilezione per ritmi lenti, a tratti lentissimi, la negazione sistematica del controcampo, l’uso estremo di piani sequenza e carrelli, da cui i due film già recensiti erano ampiamente contraddistinti, Winter Brothers si segnala per una marcata ossessività formale (nella contrapposizione reiterata fra il bianco della neve e il nero della cava/miniera in cui il film è ambientato, illuminata, si fa per dire, dai soli elmetti da minatore), per un uso, di nuovo: ossessivo, del sound design e per dei movimenti di macchina di una lunghezza esagerata, per esempio un lunghissimo carrello laterale attraverso i rami quasi spogli di un bosco invernale per seguire, vedere e non vedere il protagonista del film.
Il quale fa l’operaio nella summenzionata cava/miniera, per lo più aggirandosi come uno squilibrato, in perenne dissidio un po’ con tutti: colleghi, conoscenti, e anche il fratello, di cui al titolo, anche se quest’ultimo conflitto non mi pare così determinante e strutturante come il titolo farebbe pensare. Come sarà anche nei film seguenti, il paesaggio, nei film di Pálmason, è imprescindibile, qui non è come nei testi già menzionati l’Islanda, ma direttamente la Danimarca, la cava si trova in quel paese, ma i tratti inospiti di questo paesaggio se la giocano con quelli islandesi. Il paesaggio estremo, il lavoro disumano e disumanizzante, l’abbondante consumo di alcool (che il protagonista Emil distilla rubando le sostanze chimiche nel deposito della cava e spaccia ai colleghi, quel lavoro sembra tollerabile solo così) circoscrivono un universo distopico che non può non indurre quei disturbi psichici e le derive criminali di cui la figura principale diventa paradigma. Al netto del rigore stilistico, apprezzabile ma come detto estremo, il film finisce per obbedire a un certo meccanicismo da teatro naturalista in cui i personaggi perseguitati da tare ambientali, sociali e psichiche non possono opporsi all’ineluttabile compimento di un destino, quasi segnato in partenza. In questo senso, lo ribadiamo, l’operazione di recupero (e di distribuzione) di questo film di sei anni fa appare discutibile. Sarebbe stata semmai giustificabile nel quadro di una retrospettiva dedicata al regista, la cui produzione è tuttavia da ritenersi ancora troppo scarna.
In sala dal 25 maggio
Winter Brothers- Una storia di mancanza d’amore (Vinterbrødre)- Regia, sceneggiatura: Hlynur Pálmason; fotografia: Maria von Hausswolff; montaggio: Julius Krebs Damsbo; interpreti: Elliott Crosset Hove (Emil), Simon Sears (Johan), Victoria Carmen Sonne (Anna); produzione: Masterplan Pictures; origine: Danimarca/Islanda, 2017; durata: 94 minuti; distribuzione: Trent Film.