Chissà, può darsi che per tradurre in immagini in movimento il fluviale primo volume di Antonio Scurati sulla genesi del fascismo, M. Il figlio del secolo, fosse necessaria la giusta distanza di uno sguardo straniero, come quello del londinese Joe Wright; può darsi che fosse necessario che a incarnare il dittatore romagnolo Benito Mussolini servissero il corpo e la voce del romano Luca Marinelli (entrambi per nulla somiglianti all’originale)? Chissà, non lo sapremo mai, perché quello che stiamo commentando è l’adattamento di Wright e Marinelli, di un libro che avrebbe potuto essere affrontato in tanti altri, diversissimi, modi. E di questo parleremo, sottolineando i suoi (tanti) pregi e alcuni suoi limiti.
Il primo aspetto che occorre sottolineare riguarda l’evidenza direi epocale che sancisce lo sdoganamento definitivo della serialità d’autore in uno dei templi della cinefilia mondiale. Accanto alla serie prodotta da Sky Studios (con The Apartment e Pathè) di cui ci stiamo occupando, sono sbarcati sul Lido i lavori seriali di tre giganti del cinema come Alfonso Cuarón (Disclaimer), Thomas Vinterberg (Families Like Ours), Rodrigo Sorogoyen (Los Años Nuevos); cui si deve sommare la mini-serie targata Rai del nostro Sergio Rubini (Leopardi – Il poeta dell’infinito) e i due capitoli di Horizon: An American Saga di Kevin Costner, che se non è una serie per durata ci assomiglia.
Si definisce questa circostanza epocale perché appare ormai lapalissiana la insussistenza di qualsivoglia distinzione “idealistica” tra la purezza del cinema-cinema e la sua superfetazione e/o degenerazione seriale. Mettiamoci tutti l’anima in pace: le serie tv occuperanno (già occupano) uno spazio sempre più preponderante, a prescindere dal luogo e dal mezzo/medium di fruizione (sia esso il grande schermo, come in questo caso; o il mini-display di uno smartphone poco importa): un dato inesorabile; radicatosi nelle nostre abitudini, prima, durante e dopo la clausura biennale cui ci han costretto i vari lockdown pandemici. I nostalgici se ne potranno crucciare (io sono tra loro), ma non potranno arrestare un’evoluzione di cui si farà bene ad apprezzare i frutti polposi (come è, soprattutto, questo M.), e non soltanto i lati negativi: il declino irreversibile degli incassi medi, la chiusura esponenziale delle sale (proprio ora sotto casa mia il mitico cinema Capitol, nel centro di Catania, sta per diventare una palestra avveniristica), e il rischio che il mercato sia fagocitato da pochi film-evento come nella scorsa stagione furono/sono Oppenheimer, Barbie e più di recente Inside Out 2.
Ma torniamo a M. Il figlio del secolo, quello di Joe Wright (sebbene lo scrittore Antonio Scurati figuri nei credits, nel ruolo di collaboratore alla sceneggiatura scritta da Stefano Bises, Davide Serino). Si insiste sulla paternità del regista inglese poiché l’oggetto artistico che siamo chiamati a giudicare è come non mai consustanziale della sua cifra stilistica, tanto che non si potrebbe dir nulla del primo senza contemporaneamente chiamare in causa quest’ultima (ciò che è, in certo senso, vero sempre, ma stavolta in un senso più cogente). Di fronte alla materia magmatica di Scurati, che romanzava con prosa lussureggiante una tragica pagina di Storia nota a tutti; Wright opera un ulteriore scarto di astrazione narrativa, adoperando i canoni stilistici che aveva già in parte adoperato nelle sue precedenti trasposizioni filmiche di opere letterarie: si sta pensando principalmente ai romanzi Orgoglio e pregiudizio, Espiazione e Anna Karenina che hanno ricevuto grazie a queste traduzioni una più che plausibile seconda vita. Film nei quali, complici i comparti scenografico e dei costumi, da quei classici della letteratura europea, non solo ottocentesca, egli estrasse l’anima teatrale.
È questa la cifra essenziale – e a nostro parere la più rilevante – anche di M. Il figlio del secolo, che carica il film sulle spalle di Luca Marinelli chiedendogli di adoperare un approccio straniante (nel senso di Brecht), affinché quella pagina di Storia vecchia di 100 anni sia chiara a tutti. Mussolini/Marinelli si rivolge direttamente a noi, in quelli che a teatro sono chiamati gli “a parte” (in cui si immagina che il personaggio interpelli lo spettatore, ignorando la scena che si sta contemporaneamente svolgendo accanto a lui), commentando i passaggi più drammatici, contraddicendoli con una smorfia di sarcasmo, sottolineandone talvolta l’assurdità: “Silenzio” dirà a noi, pubblico della sala Darsena del Lido di Venezia, all’indomani della sua pubblica autodenuncia parlamentare del delitto Matteotti nel 1925, quando tutto poteva ancora essere fermato e non lo fu, per l’ignavia dei suoi oppositori (non tutti ovviamente, con l’eccezione di alcuni socialisti e dei comunisti che pagarono poi con il confino o la fuga all’estero).
È dunque innanzitutto questo, M. Il figlio del secolo: una impietosa lezione di Storia che non fa sconti a nessuno, e che si vuole proporre anche come strumento didattico a beneficio delle nuove generazioni, con alcune derive pure didascaliche: le solite frecciatine rivolte agli autocrati dei nostri giorni (c’è un “make Italia Great Again” in cui si sbertuccia Donald Trump; e delle anacronistiche “operazioni speciali”, che rimandano alla invasione putiniana del Donbass), quasi a sottolineare che ciò che accadde allora potrebbe ricapitate sotto altre spoglie adesso. Sin qui Wright, che non si limita a svolgere il suo mestiere di regista in questa scoperta chiave pedagogica; egli scoperchia inoltre la sua ben nota cassetta degli attrezzi scenici (non si sfugge al ricorso a questi parallelismi teatrali, tanto è preponderante il retaggio di questo medium gemello), fatta di citazioni cinefile, riprese vorticose, montaggi ipercinetici, retorica tonitruante; zeppa insomma di risorse che stordiscono e divertono, come il giro di giostra su un otto volante.
E poi c’è Luca, nel senso di Marinelli. E qui non ci sono mezze misure: se siete alla ricerca di un adesione mimetica al capoccione del Duce (che è però, a ben vedere, piuttosto improbabile sul grande schermo; ci si sono provati invano Rod Steiger, Mussolini ultimo atto; Bob Hoskins, Io e il Duce; Mario Adorf, Il delitto Matteotti) lasciate perdere. Il Mussolini di Marinelli – e non sarebbe potuto essere diversamente – non ha nulla di verosimile. Si l’attore romano ci prova ad addolcire la zeta, come usa a Predappio e dintorni, indossa docilmente una calotta per simulare una calvizie ducesca, tenta di apparire tozzo e possente invece che longilineo e segaligno; ma più si camuffa e più quel trucco appare per quello che è, un trucco per l’appunto, assai poco credibile. Perché non è la verosimiglianza la strada che lui e Wright hanno esperito per giungere al cuore di tenebra (a proposito, ecco uno che ci è andato vicino, forse: il Marlon Brando di Apocalypse Now) di quella persona bigger than life. No. La calotta improbabile, il dialetto impossibile, la postura incredibile sono tutti indizi disseminati sul palcoscenico (ancora il teatro ci ritorna in mente…) per denunciare vieppiù la messinscena cinematografica (F for Fake potremmo dire, scomodando il sommo Orson Welles), e il nessun interesse di regista e attore a rappresentare un carosello di sosia e di controfigure. Ce lo dicono questi indizi, ma soprattutto la recitazione di Marinelli che è perennemente sopra le righe, sempre a un passo dal farsesco (indiscutibile il tratto comico nei suoi duetti con il personaggio mefistofelico dell’antesignano “spin-doctor” Cesare Rossi, interpretato da Francesco Russo), tutto dentro una trasfigurazione clownesca del più grande tiranno della nostra Storia contemporanea, il quale fu però anche – questo ci dice la serie Sky, forte e chiaro – un pagliaccio tragico, non troppo diverso dall’altra icona di questa 81° Mostra del cinema, il Joker di Todd Phillips/Joaquin Phoenix. Un clown che ha fatto ridere poco e che i suoi contemporanei avrebbero potuto, forse, fermare se non gli avessero opposto un assordante “silenzio!”. Ma di questa importante serie di sicuro torneremo a parlarne qui sulla nostra rivista.
In onda su Sky nel 2025.
M. Il figlio del secolo – Regia: Joe Wright; sceneggiatura: Stefano Bises, Davide Serino con la collaborazione di Antonio Scurati ; fotografia: Seamus McGarvey; montaggio: Valerio Bonelli; musica: Tom Rowlands; scenografia: Tom Rowlands; costumi: Massimo Cantini Parrini; effetti speciali: Stefano Leoni; interpreti: Francesco Russo (Rossi), Barbara Chichiarelli (Sarfatti), Federico Majorana (Dumini), Maurizio Lombardi (De Bono), Gaetano Bruno ed Elena Lietti (Matteotti e moglie), Benedetta Cimatti (Rachele), Paolo Pierobon (D’Annunzio), Vincenzo Nemolato (il re detto “Sciaboletta”); produzione: Sky Studios Italia, The Apartment. Pathé, Small Forward Productions; origine: Italia, 2024; durata: 212 minuti (ep. 1-4), 200 minuti (ep. 5-8); distribuzione: Sky Italia.