Miracle di Jang Hoon Lee

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L’uomo che visse due volte recitava i titolo italiano di un film americano del 1956, e come c’è un uomo che ha vissuto due vite, così c’è un cinema, quello sud-coreano, che di vite ne ha avute altrettanto: la prima su suolo occidentale, il secondo sul proprio. Fuor di metafora, si vuole suggerire come le pellicole odierne sudcoreane trasudino in ogni loro scena e inquadratura, e così pure a livello di trama, una mancanza di innocenza e originalità filmica che deriva da uno studio e poi riproposizione dei propri modelli occidentali. Se poi balza all’occhio il velo di ironia con cui ridipingono il prodotto per dare un’aria di sprezzatura tradita dall’ordine imposto, be’, il gioco è fatto. Miracle è un film di questo genere: fotografia pastello, pulizia e ordine dell’inquadratura, trama strutturata. Ne esce comunque un buon prodotto che cerca di dosare dramma e comico, ma l’atmosfera favolistica prende un po’ il sopravvento e quello che risulta è un polpettone all’americana dei primi anni ’90, anzi, della Corea del Sud anno 2021.

 

Un paesino perso tra le montagne. Unica via per raggiungerlo le rotaie, nel senso che gli abitanti quella ferrovia devono farsela a piedi perché la stazione dove potersi fermare non c’è, con il rischio continuo di finire sotto il treno. Di stazione ne servirebbe quindi una, ed è quello che scrive il giovane Joon-Keyong al presidente, una lettera dopo l’altra. Ma il giovane è tanto un genio della matematica quanto incolto in cultura e scrittura. Ha bisogno di una penna se non di una mano, e penna e mano gliele dà Song Ra Hee, compagna di scuola e – guarda il caso – figlia di un deputato. La ragazza vorrebbe che Joon premiasse il suo talento da matematico, ma il giovane non vuole per nessun motivo abbandonare il paesino, perché

Prima devo costruire la stazione di passaggio!

Tra i due dovrebbe nascere una storia d’amore ma Joon-Keyong è lento nelle questioni relazionali e non potrebbe essere differentemente: il rapporto con il proprio padre – il macchinista che guida ogni giorno il treno che mai si ferma al paesino – è ai minimi termini, la madre è morta e soltanto la sorella Bo può essere d’aiuto. Ma un giorno il presidente finalmente risponde: la stazione si può fare, a patto che…

Il regista Jang Hoon Lee aveva presentato questo film al Far East Film Festival del 2021 vincendo il premio del pubblico, e in effetti il film si presenta come ottimale per il grande pubblico, magari quello in cerca di una storia non superficiale e pronto a piangere un paio di buone lacrime. Questo perché, lo si dica, Miracle è fatto bene. Ma forse persino troppo.

Il successo del cinema sudcoreano degli ultimi vent’anni ha dimostrato chiaramente come delle perle dal lontano Oriente ogni tanto, e ultimamente sempre più spesso, scivolino oltre i confini nazionali e arrivino a noi: Parasite di Bong Joon-ho del 2019, Broker di Kore’eda del 2022, Decision to Leave di Park Chan-Wook, sempre dell’anno scorso, e i titoli potrebbero continuare ma il discorso che li lega è lo stesso: questa “nuova onda” sudcoreana condivide uno studio del cinema occidentale che incontra l’ordine mentale orientale e che per smorzare il contrasto infila una vena ironica. Ne escono lavori che hanno una logica della fotografia, inquadratura e del movimento di mdp estrema, ai limiti della perfezione, tanto che di tanto in tanto si vorrebbe uno scivolone – non programmato – per evitare il senso di claustrofobia filmica che prende lo spettatore.

La fotografia pastello, a dare quell’effetto mezzo vintage mezzo favolistico, non aiuta, anzi, tira il fiocchetto al prodotto, mentre la trama che parte da uno spunto interessante e reale – la mancanza di una stazione fondamentale per un paesino – e con delle tensioni tra i personaggi buone – padre, figlio, sorella – tende dalla seconda parte in poi a perdere di leggerezza e a tramutarsi in un polpettone didascalico che s’impunta nel voler risolvere tutti i fili tesi nel film. Le lacrime fanno così a tempo a scendere e a seccarsi.

Miracle è un film sintomatico del cinema sudcoreano. Affogata dal cinema occidentale, la Corea del Sud ha appreso da quello tutto ciò che bisogna sapere in termini di bravura cinematografica. Sorprendente quando se ne riesce a smarcare attraverso spunti originali, estremizzazioni o temi nostrani – la lotta di classe -, meno sorprendente e a tratti noioso quando non porta nulla di suo, se non un velo di ironia e una voglia di dire tutto che poi rischia di non lasciare nulla in sospeso per la mente e, soprattutto, per l’occhio.

Dal 23 marzo al cinema.


Miracle (Gi-Juk/ Miracle: Letters to the President) – Regia: Lee Jang-hoon; sceneggiatura: Lee Jang-hoon, Son Joo-yeon; fotografia: Kim Tae-soo; montaggio: Park Kyung-soon; musica: Kim Tae-seong; interpreti: Park Jeong-min, Lee Sung-min, Im Yoon-ah, Lee Soo-kyung; produzione: Blossom Pictures; origine: Corea del Sud, 2021; durata: 117’; distribuzione: Academy Pictures Two.

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