Decision to Leave di Park Chan-wook

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Sono davvero così ingenuo?

E io sono davvero così malvagia?

Divoratore, morboso, asfissiante. Si parla del sospetto, ma queste parole potrebbero senza problemi descrivere l’amore. Dopo aver snocciolato la vendetta nella sua trilogia (Mr. Vendetta, Old Boy, Lady Vendetta), uno dei pilastri del cinema sudcoreano, Park Chan-wook, torna dietro la mdp e va per la sua strada, in tinta noir, con un montaggio serrato, snodabile, e una secchezza alla Hitchcock. In Decision to Leave allo spettatore tocca correre a perdifiato, perdersi nelle mille trappole tese e poi ritrovarsi per il gran finale. Tra le mille varianti del sospetto, alla fine ci si scoprirà piacevolmente di troppo, in mezzo a un tango a due tra sospettata e investigatore, ben sapendo che

Uccidere è come fumare. Solo la prima volta è difficile.

Hae-joon (Park Hae-Il) ha diciotto tasche in tutto: dodici nell’impermeabile, sei per i pantaloni. Sono piene di oggetti, utili all’occorrenza. Felicemente sposato, per quanto lo possa essere un detective che ha sviluppato una forte dipendenza per la sirene dei lampeggianti, nel suo appartamento ha un muro con appese le foto dei casi irrisolti. Gli disturbano il sonno, anzi, è diventato insonne a forza di sbatterci la testa. Seo-rae (Tang Wei) è di origine cinese, lavora come badante, è sposata con un uomo più anziano, addetto ai passaporti. Un giorno, il marito viene ritrovato senza vita ai piedi di una montagna che era solito scalare. La donna non prende troppo male la notizia, nota un poliziotto:

La moglie non è scioccata. Che donna scioccante. Ora sta persino ridendo!

Tang Wei

Hae-joon inizia le indagini e le conduce a suo modo, senza togliere gli occhi dalla donna. Appostamenti continui, giorno e notte, binocolo alla mano, diario per prendere appunti, microfono con cellulare pronto a tradurre dal cinese. Attenzione: in un audio la donna si augura che il gatto le porti la testa del cattivo detective. È soltanto una canzoncina, si spera. Il detective non molla la presa, le rimane con il fiato sul collo, e le vite dei due cominciano a battere lo stesso tempo, a incastrarsi sino a che la scoperta di un’eventuale colpa potrebbe solo rovinare il tutto. Il problema però non si pone: la donna ha un alibi. È innocente, fino a prova contraria. Il sospetto ha tuttavia mille regole, e una di queste è che se si guarda affondo, prima o poi, qualcosa si trova. Giunti a quel punto, la capacità è nel saper chiudere un occhio, almeno di giorno, perché di notte c’è l’insonnia del muro dei casi irrisolti. O fatti diventare tale quando l’amore sposta il senso del dovere, e ci annienta.

 

I maestri indicano vie che poi i discepoli, o gli epigoni, seguono. A volte sono però gli stessi maestri a mettersi sulle proprie tracce e quello che ne esce è manierismo. Park Chan-wook esce così dall’inseguimento di se stesso e ci riporta in un’atmosfera che abbandona le crudezze della trilogia della vendetta e mantiene il tocco geniale nonché il ritmo serrato. Entrare in Decision to Leave è come varcare la soglia della testa del protagonista Hae-joon, un ingenuo geniale adorabile detective. Un personaggio da fumetti trascinato a forza in mezzo ai sentimenti umani. Quella testa i cui occhi non vengono chiusi da tempo. Si è così in uno stato di dormiveglia perenne nella quale ciò che avviene è seguito da attimi di spaesamento nei quali si procede a tentoni prima di capire dove si è finiti. Sempre che si capisca se quella in cui si è capitati è realtà o ipotesi.

Questa sensazione dominante è garantita da una fluidità narrativa, basata su rottura dei limes spaziali e temporali, e così dei confini tra reale e fittizio. Il detective osserva a distanza e, al contempo, si trova accanto alla sospettata. Si guarda e si è guardati. Si ascolta e si è ascoltati. Ciò che è stato compiuto si mescola così con ciò che potrebbe essere stato compiuto e il sospetto si moltiplica senza una fine, mentre sullo schermo ogni personaggio acquisisce una natura doppia, buffa e tragica. I movimenti di mdp rilanciano poi la fluidità. Ricercati, certo, ma comunque intelligenti, senza che diventino protagonisti da oscurare la pellicola, e la fotografia ci restituisce quell’atmosfera eternamente bagnata del Sud Corea nella quale l’Occidente si scontra con l’Asiatico. Così nell’ironia:

Ci sono meno casi di omicidio ultimamente. Magari per il bel tempo?

E in realtà piove.

Premio per la Miglior Regia a Cannes, Decision to leave è un efficacissimo film. Un rompicapo che diventa un magnifico rompicuore. Leggermente didascalico sul finale, alla ricerca di una poesia che ha  già ottenuto per mezzo di tensione costante, la pellicola ci racconta uno degli amori più belli perché mai realmente compiuto e fondato sul sentimento più spinoso: il sospetto. Il sospetto di essere ingannati, il sospetto di ingannare, il sospetto di amare, il sospetto non essere amati. E tutto nasce da lì, dal sospetto che si abbia ucciso. Amore e morte, sospetto a far da terzo incomodo naturale, Park Chan-wook porta le dinamiche di Vertigo ai nostri giorni e lo rende intelligentemente contemporaneo – smartphone nuovo deus ex machina – in una storia d’amore dalle tinte fosche o in un noir dalle tinte rosee, che dir si voglia. Macabro e romantico. A ogni modo, non si può perdere il film né distrarsi durante la visione. È un attimo che il muro venga liberato dalle foto, il sospetto si annacqui e il caso si risolva, per sempre.

Dal 2 febbraio al cinema.


Decision to leaveregia: Park Chan-wook; sceneggiatura: Jeong Seo-kyeong, Park Chan-wook; fotografia: Kim Ji-young; montaggio: Kim Sang-Beom; musiche: Yeong-Wook Jo; interpreti: Tang Wei, Park Hae-Il, Lee Jung-hyun, Go Kyung-Pyo, Yong-woo Park; produzione: CJ Entertainment, Moho Film; origine: Corea del sud, 2022; durata: 138’; distribuzione: Lucky Red.

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