“I dialoghi sono affar mio” – Intervista ad Elettra Caporello

Quando abbiamo letto che tra gli ospiti dell’Ennesimo Film Festival (28 aprile-5 maggio) c’era Elettra Caporello, dialoghista di centinaia di celebri pellicole, dai primi anni ’80 ad oggi, tra cui i film di Woody Allen e Martin Scorsese, abbiamo richiesto di incontrarla, e ne è valsa assolutamente la pena. Riportiamo qui l’ intervista che ci ha concesso, in cui ha raccontato della sua carriera, dei suoi interessi, della sua vita, in maniera talmente divertita e piacevole che avremmo voluto continuare la chiacchierata ancora a lungo. Ascoltare i suoi racconti ricchi di aneddoti apre una finestra su un ruolo, quello del dialoghista, estremamente affascinante. Che cosa fa di preciso un dialoghista, e come si relaziona questa professione con le altre del mondo del cinema, ve lo lasciamo spiegare direttamente a lei.

Quali sono i primi film, i primi progetti a cui tu hai lavorato, e come ti sei ritrovata a fare la dialoghista?

I film sono tanti, ne ho fatti 1728, ricordarli è un problema anche per me. Ho cominciato tardi, al ritorno dei miei dieci anni passati a New York, dove, lavoravo negli uffici stampa. Ho sempre lavorato negli uffici stampa del cinema, quando sono tornata da NY non avevo le idee molto chiare. Poi un vecchio amico dell’epoca mi disse: perché non ti metti a scrivere i dialoghi? Prima mi ha spiegato di che si trattava, mi ha portato davanti a una moviola (all’epoca si usavano le moviole) e mi mostrò come funzionava, e quello è stato il mio training. Poi mi disse una cosa importante che all’epoca ovviamente non capii: “se devi scrivere dialoghi, o una frase per acchiappare bene labiali e le pause, ripeti la voce, ma non nella tua mente. Ripeti a voce alta perché se utilizzi la voce-pensiero non ha lo stesso timing, ci sono frazioni di secondi che ti sfuggono”. È stato un suggerimento molto importante che io uso ancora adesso: lavoro in cuffia e poi ripeto a voce alta. Mi devo mettere in una stanza per conto mio, perché ripeto le frasi.

Quando scrive un dialogo ha già in mente chi andrà a recitarlo/doppiarlo?

In realtà no, poi ovviamente, avendo fatto ad esempio tutti i film di Scorsese dai tempi di Gangs of New York, quindi sono una dozzina, e in quasi tutti sempre c’è De Niro, per cui chiaramente la voce di De Niro la conosco. Però le voci sono un affare che compete al direttore di doppiaggio, Molte volte incontro doppiatori che mi dicono: “Signora. Ho lavorato su tanti copioni suoi” e io non so chi siano.

Che genere di prodotti audiovisivi erano i primi lavori a cui hai contribuito?

All’inizio si comincia con i telefilm. Prima di tutto i cartoni animati. Poi si passa ai telefilm. E poi se uno insiste ci sono i film. Io ho scoperto che questo lavoro mi piaceva molto, quindi mi ci sono appassionata. Ho cercato di impararlo, rubacchiando qua e là e facendo tantissima pratica. Ricordo che all’inizio c’erano dei film americani molto belli, di autori come Lubitsch, Capra, di cui erano stati smarriti i dialoghi originali, per cui io avevo soltanto una copia da cui dovevo trarre i dialoghi originali, ed è una cosa difficilissima, anche se sei di madrelingua, fare la traduzione e poi fare l’adattamento. Il tutto per due lire e mezzo ovviamente, perché ero all’inizio, e ancora qualche volta li vedo girare di sera tardi sulle Reti Rai. Insomma, mi sentivo pronta e quindi volevo fare il cinema: quella era la mia passione, quindi ho chiamato la Titanus, che all’epoca era una distribuzione importante. Ho chiesto dell’ufficio edizioni, e mi presento a questo signore: “Io mi chiamo Elettra Caporello, scrivo dialoghi per la televisione, vorrei scrivere dialoghi per il film.” Mi sembrava una richiesta normale, legittima. La risposta di lui nel 1985, non nel medioevo, è stata: “Signora, i film li scrivono gli uomini.”
Lui però era in perfetta buona fede. Aveva ragione perché nessuna donna aveva mai scritto un film. l’ha detto, chiaramente, in grandissima buona fede. E io ho pensato: “se adesso attacco una solfa sul femminismo finisce male.” Io poi sono cresciuta con due genitori che facevano sempre battute, e quindi gli ho detto: “Senta, le posso fare una domanda?” “Prego.” “Gli uomini, con quale parte del corpo li scrivono ‘sti dialoghi? Perché, come lei può capire, una cosa io non ce l’ho, però il resto è tutto in ordine.”
Ha fatto una faccia sconcertata, e poi ha detto: “Senta, io ho tre film francesi, sono brutti, difficili, e li pago poco, ne vuole fare uno?” “Li posso fare tutti e tre?” “Si accomodi” e io mi sono accomodata.
Ancora quando lo incontro mi dice: “ti rendi conto che mi hai risposto?” E io gli faccio: “ma ti rendi conto tu che mi hai detto?”
Dopodiché evidentemente però lui ha capito che forse potevo anche cominciarla ‘sta carriera. Infatti un giorno mi ha telefonato e mi ha dato da adattare L’Onore dei Prizzi, (John Huston, 1985) che era un film molto importante, uno di quelli grossi. Poi, l’effetto valanga, e il lavoro è cominciato ad arrivare.

Cinema e televisione sono due realtà molto differenti anche per gli adattamenti?

C’è una grande differenza. Intanto economica, perché chiaramente i film te li pagano di più. Poi c’è una maggiore soddisfazione: quando cominci a fare una serie, alla fine non sai più che cosa gli devi far dire a questi personaggi, io ho fatto le prime quattro puntate di Beautiful, però poi ho detto lasciamo perdere, non fa proprio per me. Mi ricordo che un anno dopo incontrai il tizio che le aveva ereditate da me, e gli ho chiesto: “ricordo che nelle prime puntate c’era questa protagonista che era una ragazza non sposata, era rimasta incinta e doveva decidere se abortire o meno, poi che ha fatto?” La risposta è stata “ci sta ancora pensando”.
Nei film invece, due ore e finisce lì. Ho fatto molte commedie, da Harry ti presento Sally, a C’è posta per te, film che sono invecchiati bene secondo me, io ho vissuto per anni con la celebre frase “mi porti quello che ha preso la signorina”. Il lavoro della dialoghista comporta un grande rispetto del regista, il film è il suo, però nello stesso tempo ci vuole anche un atteggiamento comprensivo nei riguardi del pubblico italiano, sono loro che devono ridere, piangere, capire.
Woody Allen è sempre stato una mia passione, mi piaceva molto. Però Woody Allen aveva, ed ha ancora, un supervisor americano che segue i doppiaggi in quattro lingue in Europa, che io conoscevo; quindi, ogni tanto provavo a chiedergli se potessi lavorare ai suoi film. Mi rispondeva sempre “mi spiace ma non posso”, una volta mi chiese di fare sottotitoli ad un film di Allen per Venezia, io gli dissi “posso fare anche i dialoghi?”. E lui disse “no, lo sai che non te li posso dare”. “E allora i dialoghi falli fa’ a chi te pare, io non te li faccio”.  È andata avanti per quattro anni di seguito, e poi al quinto anno, credo per sfinimento, m’ha detto sì, e ho cominciato. Con il suo ultimo film è stato il mio 38º consecutivo di Woody Allen, non ho più lasciato. E non ci siamo mai incontrati.
Scorsese invece, lo contattai direttamente, era venuto a girare Gangs of New York a Roma. Sono rimasti sei mesi, addirittura abitavano a Roma. Il film era della Fox e io non ho mai lavorato per loro, per cui sapevo che non mi avrebbero chiamato per una cosa importante. Attraverso un’amica di Parigi ho trovato l’e-mail di Scorsese. Quindi, gli ho mandato la lista dei film che avevo fatto fino allora, che erano già parecchi. Poi, ho scritto: “Mr. Scorsese, la mia situazione è questa: il film che lei sta girando, io lo voglio fare assolutamente. La Fox non è uno dei miei clienti, non mi chiameranno mai. Mi perdoni for the Chutzpah (parola yiddish che significa faccia tosta).” Lui mi rispose dopo pochi giorni, dicendo: “Signora Elettra, si ricordi che the Chutzpah paga sempre” e mandò una lettera alla Fox, dicendo che la sua dialoghista di fiducia in Italia è la signora Caporello, ed era lei che voleva per i suoi dialoghi. Così, la Fox non mi poteva ignorare. Da lì, abbiamo cominciato a lavorare insieme.
Ogni due/tre anni, lui fa un film, e manda sempre una lettera alla distribuzione, dicendo: “Ricordiamoci che la signora Caporello è la mia persona di fiducia per i dialoghi.”
Ho sempre amato Scorsese, anche prima di cominciare. Mi è sempre piaciuto molto. È un autore molto complesso, ma è un grandissimo regista.

In passato hai detto che una delle cose più complesse da trasporre per quanto riguarda Woody Allen è l’umorismo, mentre per quanto riguarda Scorsese è la quantità di parolacce presenti.

Anche perché Scorsese mi manda sempre un messaggio dicendo che non vuole togliere neanche una parolaccia. Per The Wolf of Wall Street con DiCaprio, ad esempio, c’erano 285 vaffanculo. Era dura, ma ho giurato su mia madre che li avrei messi tutti. Poi ne ho levati tanti, anche il direttore del doppiaggio mi disse “ma non saranno troppi?” “ma quando ce vo ce vo”.
Credo che questo suo ultimo film (Killers of the flower moon) sia bellissimo e io sono contenta, perché era un film su cui, da un punto di vista di successo economico, nessuno avrebbe scommesso, nemmeno io.
Ma la gente è andata a vederlo. Un film di 3 ore e 20 minuti, The Irishman durava 3 ore e 40, però The Irishman aveva una differenza, essendo un film di Netflix, è uscito direttamente sulla piattaforma, per essere visto comodamente, anche a più riprese, sul divano di casa, invece questo è uscito in sala.
Non ho mai avuto così tante telefonate da persone che erano rimaste colpite, è veramente un grande film, con un finale straordinario. C’è quella scena finale bellissima. Insomma, è quasi tutto bellissimo.

C’è un progetto a cui sei particolarmente affezionata o ce n’è uno che hai trovato particolarmente complesso da affrontare?

Devo dire che di film facili non me ne sono arrivati tanti. I film di Scorsese sono sempre veramente complessi, l’unico che era meno complesso, era anche meno bello, ed è stato The Aviator.

Quando stendi un dialogo, ne fai diverse versioni? In che modo annoti gli elementi importanti o altri dettagli necessari all’adattamento?

Ora ti spiego come lavoro, che è un modo di lavorare che ho imparato da Alberto Pifferi, con il quale, peraltro, ho vissuto trent’anni, e che secondo me rimane il più grande dialogista che abbiamo avuto, ha fatto film come Blues Brothers, il Padrino, e tanti altri.
Allora, io vedo il film in originale con i dialoghi originali, e faccio sul copione originale dei segni miei, nel senso che se metto una grande V, è un primissimo piano, e lì significa veramente che devi fare attenzione alle labiali, alle lunghezze, al ritmo, metto invece una piccola v sulle inquadrature dove magari il soggetto si gira oppure, campo lungo, oppure addirittura fuoricampo, in qual caso puoi fargli dire anche tre volte il salve regina, e non c’è problema.
Fatto questo, si passa alla traduzione. Ma attenzione, il lavoro del dialoghista non è un lavoro di traduzione, anche perché io ho fatto film in tutte le lingue possibili immaginabili, anche il bangla, anche il cinese, anche il giapponese. Non posso conoscere tutte le lingue, chiaramente devi avere dei traduttori, ai quali però io richiedo una traduzione letterale, precisa, soggetto, verbo e complemento oggetto. Niente voli pindarici, niente frasi idiomatiche e giochi di parole: quelli sono fatti miei. Lo faccio fare anche dall’inglese perché molte volte è anche una questione di tempo: Io magari ho tre copioni sulla scrivania, che tutti vogliono per l’altro ieri, non per dopodomani, e quindi mi faccio fare queste traduzioni. Poi, con l’originale e la traduzione stampata, (io le stampo, i film di Scorsese sono libri praticamente), scrivo a mano i miei dialoghi, cioè correggo le famose frasi soggetto, verbo e complemento oggetto e le faccio diventare dialogo, lo faccio a mano, con la penna, perché mi viene meglio. Dopodiché li passo a qualcuno che li traspone su computer, e li formatta nella maniera corretta, con un certo numero di battute per ogni riga. Ma quello che scrivo io a mano non è definitivo, di più, non si tocca più, e mai ripensamenti. Di ripensamenti nella vita pochi ne conosco, ma nel lavoro proprio per niente. Specialmente all’inizio mi sono arrabbiata molto quando mi cambiavano le frasi in sala. Quindi scrivo sempre che va benissimo cambiare. Nessuno di noi scrive la Divina Commedia, però deve essere interpellata, dato che il film lo firmo io.
Poi a un certo punto, nel ‘98 sono arrivati i diritti d’autore della SIAE. E la SIAE l’unica cosa che ha richiesto e che ancora richiede e che tu, ogni tre mesi gli mandi la lista dei tuoi film, possibilmente titolo originale, titolo italiano se è possibile, e il nome della distribuzione italiana. Ora, io sono della Vergine, sono una precisa e fissata. Avevo cominciato a scrivere dialoghi da vent’anni ma mi ero segnata tutti i lavori che avevo fatto, non mi ero persa neanche una puntata di un cartone animato, mentre gli altri, a partire da Pifferi, che all’epoca ne aveva fatti molti di più, non si era mai scritto niente, per cui non ti dico che tragedia. Bisognava riuscire a risalire, operazione complicata: gli comperai una copia del Mereghetti, e gli dissi, “ora ogni sera ti leggi dieci trame e cerchi di ricordare quali hai fatto”. E fu buffo perché ricordo che una mattina si sveglia e mi fa, “Senti ma io ho fatto anche tutti i Rocky i Rambo e Arma letale, che dici, ce li mettiamo?” “Ce li mettiamo? Ci paghiamo l’affitto per tre anni! Vanno continuamente in televisione!” Abbiamo un’associazione di categoria che si chiama AIDAC “Azione italiana dialoghista adattatori cinematografici”, per cui si occupano loro delle parti più noiose.

Tu lavori con le parole e con la scrittura in generale, vorrei chiederti quali sono i tuoi interessi letterari, i tuoi autori e i tuoi romanzi preferiti.

Se c’è un libro che ho amato veramente tanto e che mi porterei su un’isola deserta è Memorie di Adriano, non avrei bisogno di nient’ altro, è un libro che contiene assolutamente tutto. Ho letto che uno sceneggiatore italiano sta facendo un adattamento per farne una serie televisiva. Io trovo che sia una bestemmia, è un libro che non si può filmare, è troppo bello, troppo complesso, non so quante volte l’ho letto, almeno tre, sicuramente. E lo continuo a leggere. Non mi annoia. Se dovessi scegliere un libro solo, sarebbe quello.
Ho cominciato a leggere che avevo neanche cinque anni. La mia mamma mi ha insegnato a leggere su una copia del Il mago di Oz, che era un libro grande, di un bellissimo color turchese, ricordo ancora la copertina, non credo di avere mai smesso, ho avuto per parecchi anni una passione per gli autori americani.
L’ultimo che sto leggendo ora è di Maurizio Maggiani che è uno dei miei autori preferiti contemporanei, scrive un italiano meraviglioso. Questo ultimo si chiama Memoria e democrazia della Repubblica, però lui ha scritto il primo che è veramente bello, leggitelo, si intitola il coraggio del pettirosso, è una storia ambientata ad Alessandria d’Egitto, quando era piena di fuoriusciti italiani, soprattutto tanti della zona appunto di Carrara, dove c’erano molti anarchici. Ha scritto anche romanzo di una nazione che è la storia del nostro Paese, bellissimo. Poi leggo molti gialli perché mi distendono, vanno benissimo la sera quando sono stanca, mi rilassano, e quindi un Camilleri va benissimo, poi ovviamente Agatha Christie,

E Simenon?

È una delle mie grandi passioni, si, anche Simenon. Tutti i Maigret ovviamente, ma anche gli altri. Poi ho letto due libri di questa giovane, Viola Ardone, si chiama, insegna al liceo ed è siciliana, molto brava anche lei.

Ultimamente quindi prediligi autori italiani.

Sì, ultimamente sì, leggo anche gli americani, ma di quelli ho fatto una bella indigestione in passato, ho avuto una grande passione per Faulkner e per la letteratura contemporanea americana.

I classici russi?

Ora meno, ne ho letti molti letti prima dei vent’anni, Guerra e Pace ce lo siamo sciroppato tutti, ma non adesso.

Come è cambiato e si è evoluto il mondo dell’adattamento rispetto a quando hai cominciato tu?

Adesso ci sono anche tante donne, molte fanno anche le direttrici di doppiaggio, io non ho mai voluto farlo perché secondo me, di lavori bene ne puoi fare uno, non due. Da quando abbiamo avuto i famosi diritti d’autore per motivi squisitamente spirituali sono diventati tutti dialoghisti e attori. Ora lavoro quasi esclusivamente con un solo direttore di doppiaggio, (Rodolfo Bianchi, ndr) ci faccio tutti i film di Scorsese, per esempio, e lui è molto bravo perché è stato sempre un attore. Ha cominciato a recitare che aveva 15 anni. Perché per fare bene il direttore di doppiaggio secondo me devi aver fatto l’attore, così sei in grado di capire e di spiegare ai doppiatori come va appoggiata la voce, quello è importante.
Quando cominciai, lavorai con una direttrice di doppiaggio che era mitica, Fede Arnaud, morta tanti anni fa, ma aveva già smesso di lavorare perché si rifiutava di accettare i nuovi ritmi più serrati: adesso è buona la prima, perché non abbiamo tempo di farne altre, lei la rifaceva 15 o 20 volte, io mi ricordo che con lei ci feci Harry ti presento Sally, che quando lo rivedi ancora adesso, a distanza di due decenni, risulta ancora più evidente l’attenzione e la cura che vi dedicavamo.

I tempi erano diversi, così come le esigenze produttive.

E anche gli adattatori di questo soffrono, perché a volte, soprattutto in televisione, sento delle cose che fanno drizzare i capelli, però poi penso: “magari a sti disgraziati gli avranno dato un’ora e mezzo per consegnare”. Netflix è sempre quella più esigente con i tempi, chiede tempi strettissimi.

Hai tenuto anche un corso, come è stata quella esperienza, che mi dici delle nuove leve?

Io mi ero sempre rifiutata di tenere dei corsi di adattamento, mi era stato richiesto parecchie volte. Invece un anno e mezzo fa ho accettato di farlo, con una casa di doppiaggio, e devo dire che mi è piaciuto, mi sono molto divertita, erano ragazzi giovani tutti laureati, tutti appassionati di cinema, tutti che assolutamente volevano fare questo lavoro.
E io ho cominciato dicendo “Se c’è qualcuno che è timido tra voi, per favore lasciamo perdere, andiamo al bar e ci prendiamo un caffè, perché la timidezza non è contemplata”
Nella libera professione il lavoro te lo devi andare a cercare, non è che il 27 comunque ti pagano e quindi bisogna averci anche la famosa Chutzpah, una faccia tosta notevole.
Scrivere bene i dialoghi non significa scrivere bene in italiano, uno può scrivere benissimo in italiano ma non essere capace a scrivere i dialoghi. Scrivere i dialoghi significa scrivere in un italiano corretto. come parliamo, Come stiamo parlando io e te, che non significa dialetto o scivolate nel cattivo gusto.
Io porto sempre questo esempio che è classico: anni fa ci fu un remake di A bout de Souffle (Fino all’ultimo respiro, 1960), di Jean-Luc Godard, rifatto dagli americani e poi doppiato in italiano. Lui era Richard Gere, figurati, non era certo Belmondo, lei una francese che non mi ricordo (Jean Seberg, ndr). Mi ricordo però questa scena di letto in cui stanno facendo l’amore, quindi sono nudi, e lei alza la testa, lo guarda e dice: “Io ti amo, purtuttavia vorrei non amarti”
Ora, in un momento del genere, come fai a dire purtuttavia? Parole come ciononostante, malgrado ciò, non sono parole che usiamo nella lingua parlata.

Hai visto qualcosa ultimamente che ha catturato la tua attenzione?

Ho visto di recente Ripley, in inglese, quindi non posso giudicare l’adattamento. Sono otto puntate, è girato e scritto in maniera straordinaria, e questo regista-autore che si chiama Steven Zilliam proprio non lo conoscevo. Sono andata a vedere la sua biografia e ho scoperto che, a parte che ha preso l’Oscar per la sceneggiatura di Schindler’s List, è stato lo sceneggiatore sia di Gangs a New York sia di The Irishman.  È una delle cose cinematograficamente e filosoficamente più belle che io abbia mai visto, la scelta dei tagli, delle inquadrature, per chi ama il cinema è da capolavoro. Poi la storia è notevole, si conclude ma c’è lo spiraglio per una eventuale seconda stagione, guardalo anche tu, ne vale veramente la pena.


Ringraziamo nuovamente di cuore Elettra Caporello per la bellissima chiacchierata e per la grandissima disponibilità mostrata.

 

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