Neve. Tutto bianco. Neve sulla spiaggia, neve sulle case basse, neve sulla strada. Una ragazza alta, molto rispetto alla media – per questo è soprannominata Spilungona – cammina fino al porto. Prende il pesce da sua madre che lo vende per lavoro. Si reca al Blue House, un piccolo albergo gestita da un gentile vedovo di mezza età: è lì che Soo-Ha (Bella Kim) lavora come cuoca e cameriera da quando è tornata al paese natale dagli studi universitari in letteratura. Ha venticinque anni, un lavoro e un boy-friend di bel’aspetto che vuole diventare un modello a Seul. Sua madre preme affinché si sposi, forse perché l’ha cresciuta da sola. Soo-Ha sa che suo padre è francese, che ha avuto una relazione con sua madre e che è ripartito senza sapere che era incinta.
Quando incontra Yan Kerrand (Roschdy Zem), illustratore francese capitato in Corea in cerca di ispirazione, sente una familiarità inattesa. L’uomo – definito dal padrone dell’hotel un Alain Delon senza sottotitoli – è schivo, sebbene nel prezzo della camera siano inclusi colazione e cena non assaggia mai le pietanze cucinate dalla ragazza per gli ospiti dell’albergo. La madre di Soo-Ha sa preparare il fugu, piatto tradizionale giapponese, composto da filetti di un pesce velenoso a cui va tolta perfettamente una ghiandola nera che contiene veleno: solo dopo un corso specialistico si ottiene il certificato per cucinarlo. Soo-Ha chiede spesso alla madre di insegnarglielo ma lei si nega. La accompagna però a comprare un vestito elegante, caldeggiando la possibilità che la ragazza abbia bisogno di comprare presto anche un abito da sposa. Soo-Ha è sensibile, aspetta qualcosa, parla francese fluentemente, l’ha imparato da sola, perché si sente divisa. L’incontro con un uomo francese rappresenta il passato che ritorna personificando un fantasma, le consente uno sdoppiamento a specchio in una storia che le dà origine: è attratta, perde il centro, lascia il suo ragazzo, pensa sempre a lui. Le montagne innevate intorno al paesino portuale, il mar del Giappone, la zona demilitarizzata che separa le due Coree (Sochko è città di frontiera, dopo la seconda guerra mondiale sotto il controllo nordcoreano, passata nella guerra del 1950-53 al Sud Corea) sono luoghi dell’anima, dove parlare poco, muoversi delicatamente come in un continuo ralenti animato: punteggiano il film degli inserti di animazioni disegnati da Agnès Patron che raffigurano fattezze femminili che si gonfiano fino a perdere senso, un pesce volante che si libra in cielo, linee discontinue, tratti bianchi in movimento come ideogrammi che non si compongono mai a divenire un segno di senso. È una ricerca di significato l’ossessione della ragazza per l’uomo maturo di una cultura che vorrebbe fare sua: da un buchino nella carta sulla finestrella della camera accanto lo spia disegnare, morso da un fervore creativo che gli toglie ogni altra necessità, sete fame bisogno di aria. Yann sta rinchiuso nella minuscola stanzetta, una cella per un unico ospite, prigioniero dell’urgenza di fare. Le pareti sono ricoperte di carta vergata a inchiostro di china nero che Yann, nel negozio dei colori dove Soo-Ha lo ha portato, ha assaggiato riconoscendone una vena minerale. La luce è sempre bianca, tutto è bianco, tutto è da scrivere, si può lasciare una traccia, una impronta nella neve che dopo un attimo sarà cancellata.
Soo-Ha cerca uno scambio, Yann cerca compagnia. I due escono a cena fuori – amo i posti molto frequentati ma quando non c’è nessuno – camminano per le strade del villaggio, fanno una gita. Parlano. Soo-Ha ha bisogno di parlare una lingua non sua per riconoscere la sua voce. Nessun altro, prima del francese, le ha dato la possibilità di ritrovarsi. Non tutto è come sembra, non tutti i sogni si avverano, non tutto è possibile, nemmeno a vent’anni. Ma il viaggio, che sia un percorso chilometrico e spericolato o un andare dal punto A al punto B senza pericoli di sorta, è comunque ciò di cui vale la pena fare esperienza. L’inverno lascia sempre il posto a una nuova primavera. Anche per Sochko.
Da un romanzo di Élisa Shiatsu Dusapin un film delicato e potente come un haiku, impalpabile come un cielo prima della neve, visionario come un’onda di Hokusai.
Hiver à Sochk (Inverno a Sochk) – Regia: Koya Kamura; sceneggiatura: Koya Kamura, Stéphane Ly-Cuong; fotografia: Élodie Tahtane; montaggio: Antoine Flandre; musica: Delphine Malausséna; interpreti: Bella Kim, Roschdy Zem, Hyeon Park, Tae-Ho Ryu, Doyu Gong, Hwan-i Choi, Kyung-Soon Jung; produzione: Offshore, Keystone Films; origine: Francia, 2024; durata: 104 minuti; distribuzione: Wanted Cinema.