Il Re Lear è l’opera shakespeariana per eccellenza, in cui si snodano tematiche molto care al più amato drammaturgo di tutti i tempi. L’elemento che emerge con forza e che definisce l’opera, è il tema dell’amore familiare, inteso nella declinazione filiale e trasmutato in tutti i rapporti di fiducia e lealtà, che come spesso accade nelle opere del Bardo arrivano al potere e alla sua gestione.
William Shakespeare non desiderava, però concentrarsi solo ad un’analisi dell’interdipendenza affettiva tra padre e figlie, bensì andare oltre e raggiungere vette che potremmo definire filosofiche: senza fare troppi sforzi analitici osserviamo il processo di alienazione e riconciliazione delle anime dei personaggi coinvolti.
Autonomia e funzionalità del pensiero umano sono fra le categorie che Shakespeare indaga con più creativa ricerca, contrapponendosi alla visione mitologica rinascimentale dell’uomo.
Re Lear impazzisce, ma solo nella sua pazzia ritrova il senso della realtà e del limite, che quando era ufficialmente sano di mente veniva fagocitato dal mito fiabesco della sovranità. Tutti coloro che non riescono in questo passaggio catartico sono personaggi che nell’opera si perdono e si autoeliminano, in quanto vittime e carnefici di loro stessi, ingabbiati in visioni che non li porteranno a nessuna evoluzione
Re Lear di Gabriele Lavia, in scena al Teatro Argentina, è una versione che potremmo inserire tra la tradizione e la contemporaneità: l’interpretazione attoriale, infatti, è degna della scuola più fedele alla regia shakespeariana per eccellenza, ma la scena e la fisicità degli attori è di grande innovazione rispetto all’eccessiva sobrietà del passato.
Tutto prende il via da un teatro a soqquadro, in una scena scomposta, povera, ma al contempo evocativa, in cui gli attori si materializzano e uno dopo l’altro si muniscono del loro elegante costume di scena, in palese contrasto con la povertà dell’ambiente scarno scelto dalla regia.
Ci troviamo di fronte a un teatro che somiglia molto a una soffitta o ad una cantina, polveroso, in disuso: un luogo decadente come la vita di Lear, che dopo aver disconosciuto la sincera e cristallina Cordelia, si ritrova solo e abbandonato dalle figlie senza cuore, ambiziose, ciniche.
Il Re è solo di fronte alla storia, di fronte alla sua miseria e i toni usati da Gabriele Lavia sono quelli della consapevolezza e della colpa paterna per avere accolte le lusinghe senza sentire la verità lancinante, a causa dell’abuso del potere a cui durante il suo regno è sempre stato avvezzo.
I monologhi del celebre regista e attore rimandano con sottigliezza e eleganza alla nostra contemporaneità e Re Lear si trasforma, in parallelo alla performance, in una perfetta disanima dello stato politico attuale, sollecitando gli spettatori ad attuare amare riflessioni sullo stato delle cose.
Nella sua messa in scena Lavia ha scelto come in gran parte del teatro inglese contemporaneo, di differenziare e caratterizzare tutti i personaggi donando loro una forte personalità, partendo da Goneril e Regan fino ad arrivare al Foul, che oltre a essere emblema di verità e critica, evoca il racconto dell’opera attraverso il sottotesto di canzoni e gag.
Tutto si combina con scene di grande impatto, in cui l’azione esalta monologhi centrali per Il Re Lear, come quelli dei due fratelli Edgar e Edmund, opposti in un celebre dualismo interpretato in maniera matura da due attori molto talentuosi.
Scrive Lavia nelle note di regia: «“Essere o non essere” sono certamente le parole più importanti di tutto il Teatro Occidentale e, come sanno (quasi) tutti, le dice Amleto. Subito dopo “essere o non essere” Amleto dice: “Questa è la domanda”. Come se la vita di ogni uomo, non solo di Amleto, che ogni uomo lo sappia o no, non fosse altro che porsi questa domanda. Re Lear, invece, “nega” questa domanda e decide per il “Non essere”, non essere più Re. Dare via il proprio “essere” (il proprio regno) è come dare via la propria ombra (come nel famoso romanzo). Nel momento in cui Re Lear non è più Re è solo “Lear”. E che cos’è Lear se non è “più” Re? Non è che un “uomo”. Uno come tanti che non contano nulla. Non è che “nulla”. “Sono io Lear?” si domanderà disperato. Travolto dalla “tempesta” del “non essere” Lear la attraverserà fino alla fine, fino al’ultimo dolore quando l’uomo Lear, portando in braccio la figlia Cordelia morta, urlando, domanderà agli spettatori in platea e nei palchi del Teatro: “Siete uomini o pietre? Avessi io le vostre gole e i vostri occhi, urlerei e piangerei fino a mandare in frantumi la volta del cielo…”. In questo finale, colpo di genio, Shakespeare-Lear invoca le grida e il pianto di tutti gli spettatori come se fossero il Coro ideale per l’ultima scena del suo capolavoro».
Emerge con passione da queste note di regia come la ferita della storia sia inguaribile secondo la poetica di Lavia, i re, i governanti, i padri sono sconfitti, esanimi davanti agli eventi che si succedono impietosi al cospetto dell’umanità.
La stessa umanità che Shakespeare decantava e distruggeva senza distinguete la bellezza dalla miseria degli uomini: è in questa enorme e inconciliabile opposizione, che Lavia inserisce le sue riflessioni conducendoci verso speculazioni filosofiche che ci avvicinano molto alla purezza dell’invenzione dell’umano shakespeariano con cui spesso Harold Bloom ci ha illuminato e guidato nelle sue celeberrime critiche.
Al Teatro Argentina di Roma dal 26 novembre al 22 dicembre 2024.
Re Lear di William Shakespeare – Traduzione: Angelo Dallagiacoma e Luigi Lunari; Regia: Gabriele Lavia; interpreti: Gabriele Lavia e con (in ordine alfabetico) Giovanni Arezzo, Giuseppe Benvegna, Eleonora Bernazza, Jacopo Carta, Beatrice Ceccherini, Federica Di Martino, Ian Gualdani, Luca Lazzareschi, Mauro Mandolini, Andrea Nicolini, Gianluca Scaccia, Silvia Siravo, Jacopo Venturiero, Lorenzo Volpe; scene: Alessandro Camera; costumi: Andrea Viotti; luci: Giuseppe Filipponio; musiche: Antonio Di Pofi; produzione: Teatro di Roma – Teatro Nazionale, Effimera s.r.l, LAC – Lugano Arte e Cultura.