Bosco Grande è un quartiere popolare di Palermo nel quale è possibile incontrare le vite di persone che hanno attraversato la eco lunga del glorioso e anarchico movimento punk, arrivata fino alle risacche marginali e vibranti delle periferie e delle province italiane degli anni 80’/90’, e ne portano addosso i segni di una scelta estrema, resistente, radicale fino all’eccesso che rasenta la (auto) distruzione; grande è anche il corpo di Sergio Spatola che, nell’espansione della sua stazza occupa, con ostinata, sofferta e costretta staticità, lo spazio fuori dal suo negozio di tatuaggi. La storia che Giuseppe Schillaci, il regista di Bosco Grande, accoglie da quest’uomo giunto ad un capolinea esistenziale e fisico, contiene in sé non tanto la retorica del riscatto o la stigmatizzazione di un’epoca idealizzata e mitizzata, e di alcune figure iconiche che ha prodotto; la relazione arriva ancora prima di una riflessione sullo sguardo, con tanto di voce dello stesso Schillaci che entra in campo e annuncia già una conoscenza/confidenza con Sergio, interrotta e poi ripresa, in una tensione/opposizione/ attrazione, soprattutto da parte del sanguigno e carnale Spatola, che esprime nel debordare la propria identità un modo di stare al mondo. Non si tratta dunque di chiudere la persona/personaggio dentro una lettura che tende a risolversi in un racconto e in una testimonianza, ma di restituire un sentimento, un’attitudine, l’espressione slabbrata di un’intensità consumata. Il passato, contenuto nei filmini super8 che sembrano ancora più retrodatati rispetto al passato prossimo di un cinquantenne, è intriso di una fisicità ancora vitale, seppur già spinta sul binario di una misura oversize, e dell’affacciarsi di due occhi scuri che tengono il fiato sospeso tra tenerezza e famelicità. Nel presente gli occhi di Sergio tendono progressivamente a chiudersi, ad addormentarsi, a perdersi in un riposo sfinito di abusi ed eccessi, un oblio mostrato perfino al medico dell’ospedale al quale si rivolge per provare a perdere peso, un volta che l’obesità ne divora a poco a poco ogni forma di energia o pulsione che non sia quella della fame. Da dove viene una simile voracità? Eppure Sergio ha degli amici che hanno accompagnato la sua lenta digressione, contagiati dalla sua forza e dal suo entusiasmo; compagni di scorribande come l’amico disegnatore dei tempi rivoluzionari e anarchici (che ora suona un blues rock un po’ struggente in performance venate dal rosso notturno e fumoso dei bar). E ha una famiglia, dalla quale si è volontariamente allontanato, in polemica con una ricchezza probabilmente legata a qualche collusione mafiosa paterna, che si espone in un’ indifferenza contrapposta all’istintiva e debordante, anche quella, generosità di Sergio. Lui, capace di prendersi cura, nel suo assetto scapestrato e precario di proprietario di un negozio abusivo, di una ragazza madre e di sua figlia, divenute le donne che poi gli staranno vicino fino alla soglie del trapasso.
Senza forzature o didascalismi, a un certo punto Schillaci permette di affondare nella tanta carne di Sergio e di toccarne la ferità profonda, ancora sanguinante. La telefonata che, dalla posizione supina di una sorta di letto/barella, fa alla madre che non lo vuole passare a salutare nonostante la stia informando che il giorno dopo si farà ricoverare e non sa se potrà rivederla, è un momento terrificante di vuoto empatico, di solitudine abissale, di mancanza d’amore; uno strappo che non può essere ricucito o rimarginato dall’assunzione continuativa di un cibo spazzatura che allarga solo i confini all’esterno e rimpicciolisce, fino a una regressione infantile (la totale perdita di qualsiasi autonomia fino al dover essere trasportato con una carrozzina e a poter giacere solo su un letto), la presenza calda e avvolgente di Sergio. La prospettiva spaziale della regia di Schillaci ,nel lento processo di consunzione della figura del suo ingombrante protagonista, diventa cosi rilevante tornando proprio alla scelta del titolo: Bosco Grande potrebbe essere anche un altro nome proprio, in una simbiosi tra un luogo e chi lo abita non in maniera accidentale o per indolente dato biografico. Sergione si fonde con lo scorcio di strada nella quale si trova la propria tana/casa/bottega, è il punto di vista da cui non solo ha deciso di guardare il mondo, o forse di smettere di guardarlo, ma è proprio l’essenza, il contenitore, la manifestazione tangibile di come sono andate a finire le cose, quel sogno rivoluzionario un po’ imbolsito e avvitato su se stesso, e il preludio ad un’ ulteriore conclusione.
Lontano però dal porre condizioni definitive e terminali come implicite e ineluttabili, nonostante lo stesso Sergio presagisca la propria morte, questo insolito modello di documentario misto tra osservazione e contatto diretto (la voce di Schillaci torna a rivolgersi a Spatola, il quale talvolta si rivolge direttamente al regista guardando verso la macchina da presa) imprime un’impronta che resta e sedimenta, nonostante la sgradevolezza di mostrare una situazione respingente, quella di un individuo vinto e divorato dai propri demoni ai quali oppone, fino all’ultimo rigurgito, una strenua resistenza. Perché, come diceva Emanuele Trevi nel suo libro Qualcosa di scritto, racconto del conflittuale rapporto intercorso tra lui e Laura Betti nel periodo in cui lo scrittore ha lavorato per la Fondazione Pasolini, l’umanità si rivela anche nella miseria e nel degrado: in quel caso c’era la descrizione di Betti lanciata fino allo spasimo per impossessarsi di un fast food qualunque, utile a ridurre le distanze tra la compulsione e il suo soddisfacimento; ma la stessa sensazione la produce osservare Sergio sbracato a pancia in giù, al di là di ogni buon proposito dopo l’incontro con i dottori, continuare ad ingerire “roba” da mangiare, come se da questo, e in quel preciso istante, dipendesse il significato del suo esistere. Una rivendicazione ostinata e contraria alla propria stessa sopravvivenza, ma anche alla disaffezione e alla violenza familiari subite nonostante tutto. Con un padre che lo picchiava in nome del proprio arbitrario metro di giudizio, trovando nel protagonista la fiera opposizione di chi già sapeva distinguere la differenza tra giusto e sbagliato. Una convinzione che si spezza nella voce e nel pugno utilizzato non come minaccia o aggressione, ma come asserzione per ribadire che “Il torto è torto, e il dritto è dritto”, con un riaccendersi di quella fiamma anti patriarcale, anti istituzionale e anti familista riallacciata alla giovinezza di gioia e rivoluzione. La contro narrazione procedente per scarti e sottrazioni permette alle immagini e ai loro molteplici sensi di imporsi a tutto tondo e a Sergio di rimanere in quella zona (in) decifrabile tra il mistero e la trasparenza, la problematicità e la commozione.
Una dantesca Selva oscura con il retropensiero di un gentile bosco d’amore.
Proiezione alla presenza dell’autore mercoledì 25 settembre ore 19.30 al Cinema Farnese di Roma (manifestazione “Venezia a Roma”)
Bosco Grande – Regia e sceneggiatura: Giuseppe Schillaci; fotografia: Federico Cammarata; montaggio: Felice D’Agostino; musica: Gianluca Cangemi; interpreti: Sergio Spatola, Clotilde Gaglio, Daniela Spatola, Maria Sardina, Luisa Sardina, Fabio Sgroi, Fabrizio Puleo, Dottore Maurizio Renda, Dottore Giuseppe Rotondo, Billo Svergognino; produzione: Wendigo Films, Malfé Film, Drole de Trame; origine: Francia/Italia 2024; durata: 77 minuti.