Si è spento ieri, il 17 dicembre 2023, a 89 anni il regista georgiano-francese Otar Ioseliani (o Iosselliani) nella sua città di origine Tbilisi. Tra le sue opere principali ricordiamo: La caduta delle foglie (1966), C’era una volta un merlo canterino (1970), Pastorale (1975); e poi in Occidente: I favoriti della luna (1984), Un piccolo monastero in Toscana (1988, documentario), Un incendio visto da lontano (1989), Addio terraferma (1999), Giardini in autunno (2006). Il suo ultimo film è stato Chant d’hiver (2015). Qui un breve ricordo di Nicola Calocero.
Risulta ancora più triste perdere una figura cardine del cinema europeo come Otar Ioseliani proprio in questi giorni che preludono alle Feste. Il maestro georgiano di nascita, ma ormai da più di quaranta anni francese, che scelse Parigi come sua seconda patria per liberarsi dalle ottusità sovietiche, ci lascia una lezione importante: l’aspirazione a un cinema leggero ma non volgare, acuto ma non complicato, elegante ma non faticoso, pungente ma non irriverente. Elementi che attraversano il suo cinema di storie e di attori dai suoi esordi negli anni Sessanta quando intuisce che la freschezza del nuovo cinema europeo può tranquillamente mettersi al servizio della solidità del linguaggio canonico tradizionale sovietico per raccontare la complessità di una realtà periferica dell’impero come il suo Caucaso e le aspirazioni al rinnovamento della sua generazione.
Un teorema non gradito al regime che censurò quelle opere che lo resero pioniere e anticipatore del Sessantotto in quelle latitudini non ancora pronte a dare spazio alle voci interne di cambiamento.
Per questo in momenti complicati come il nostro presente attuale anche grazie all’opera e alla vicenda umana di Otar Ioseliani ci accorgiamo che l’ironia e l’autoironia sono elementi troppo nobili e non sempre in linea con il gusto di un’epoca.
Tratti che invece rappresentavano lo stile identitario del maestro che nell’estate del 2014 a Pesaro, chiudendo con la sua lezione magistrale il giubileo della cinquantesima edizione della Mostra del Nuovo Cinema, iniziò la sua prolusione proprio così “Chi sa fa, chi non sa, insegna…”
Una lezione informale in cui il maestro partendo da una sorta di Storyboard della Corazzata Potemkin ridisegnato per la platea di cinefili del festival avvertì il suo fedele pubblico su quei rischi che purtroppo poi hanno portato il cinema – in questo decennio – a perdere il suo rapporto privilegiato con la contemporaneità.
L’ossessione per il mercato che, peggio di una censura di regime, ha imposto un linguaggio sempre più sterile e una omologazione sempre più diffusa a causa di un sistema produttivo tecnologicamente più semplice ed economicamente più competitivo.
Il ricordo di quel sabato a Pesaro è ancora vivo non solo perché la rassegna marchigiana fu il primo festival internazionale a dargli il giusto spazio di studio e di approfondimento ma perché in parallelo il suo cinema in quel mezzo secolo, come il Festival, aveva cercato sempre di tracciare con ambizione il percorso di un cinema nuovo capace di intercettare la modernità più profonda dello spirito dei tempi.