Dopo la presentazione al Bif&st, Fabi Silvestri Gazzè – Un Passo Alla Volta arriverà nelle sale italiane il 7, l’8 e il 9 aprile. Abbiamo intervistato il regista Francesco Cordio per sviscerare questo racconto intimo e scoprirne alcuni aneddoti tecnici.
Domanda: Tu provieni da lavori orientati prevalentemente su tematiche sociali. Questo tuo nuovo docufilm un po’ si discosta da essi. Come nasce questo progetto e cosa credi di esserti portato dietro, più tecnicamente, dalle esperienze precedenti?
Francesco Cordio: sì, in passato ho realizzato documentari incentrati su tematiche sociali e politiche. Tuttavia, circa dieci anni fa, grazie a una lunga collaborazione con Daniele Silvestri – e a un rapporto meno stretto con gli altri due musicisti – ho proposto loro di girare un docufilm durante un tour europeo. Suonavano nei piccoli club delle capitali, interpretando le canzoni del loro album Il Padrone Della Festa, di fronte a un pubblico prevalentemente composto da italiani residenti all’estero. Il viaggio, svolto a bordo di un pullmino, fungeva da filo conduttore per raccogliere le storie di studenti e lavoratori che avevano scelto di lasciare l’Italia. Il film, che ebbe un ottimo riscontro, fu trasmesso dalla Rai.
Quell’esperienza mi aveva già fatto comprendere quanto i tre musicisti fossero capaci di instaurare un dialogo autentico con la gente, arricchendo notevolmente la narrazione. Questa volta, però, la dinamica è cambiata: sono stati loro a propormi l’idea del documentario, mettendosi in gioco come protagonisti. Ora sono loro a raccontare e a parlare di sé, del loro rapporto di amicizia e di quello con la musica.
Con questo lavoro abbiamo voluto ripercorrere un’epoca, affrontando temi che spaziano dalla musica allo spettacolo, fino alla società, politica, cultura e istruzione. Il contributo di Giogiò Franchini al montaggio è stato fondamentale – anzi, decisivo: le interviste, realizzate prima del concerto al Circo Massimo nel luglio 2024, sono state sapientemente intrecciate con la musica, creando un dialogo tra i protagonisti che si esprime anche attraverso sguardi, silenzi e momenti inaspettati.
È il racconto di 30 anni di amicizia, di una festa, che procede a salti. Riprendendo una frase che dice proprio Max Gazzé, “il tempo è verticale”.
Sì, esatto. Il documentario è il racconto di 30 anni di amicizia e di una festa fatta di salti temporali, riprendendo quella espressione di Max Gazzé, “il tempo è verticale”. Abbiamo deciso di alternare costantemente il passato – sia remoto che recente – e il presente, lasciando che fossero i racconti dei tre protagonisti a guidare questa struttura narrativa.
Per mantenere un equilibrio, ci siamo assicurati che ogni artista avesse lo stesso spazio, sia per le esibizioni musicali – con brani personali e di gruppo – sia per gli interventi nelle interviste. Questo approccio ha portato a intrecci inaspettati: spesso una canzone introduceva un tema che veniva poi approfondito nelle interviste, o viceversa. In effetti, queste “costrizioni” hanno in qualche modo facilitato il lavoro, permettendo di dare coerenza al discorso.
La sceneggiatura si è delineata in fase di montaggio, pur mantenendo ben chiara una direzione: le domande erano studiate per indirizzare la conversazione verso tematiche specifiche. Quando più persone esprimevano un medesimo pensiero, ne abbiamo selezionata una formulazione; mentre, in presenza di visioni diverse, è stato interessante alternare i punti di vista per offrire una panoramica completa.
Quali sono state, dunque, le difficoltà riscontrate? Non sarà stato facile raccontare tre persone con personalità così differenti tra loro, tra passato e presente, per di più.
Le difficoltà principali (se vogliamo chiamarle difficoltà) sono emerse in fase di montaggio, dove è stato fondamentale trovare un equilibrio narrativo. Pur non essendo una richiesta esplicita degli artisti, ci siamo impegnati per garantire a ciascuno lo stesso spazio, in modo da rispettare le proporzioni e dare giustizia alle personalità differenti. È stato un lavoro di precisione, volto ad armonizzare il racconto mantenendo intatta l’identità di ciascun protagonista.
Si lascia molto spazio alle canzoni, che hanno una durata consistente nel film: sembra quasi di rivivere il concerto.
Sì, l’idea era di lasciare ampio spazio alle canzoni, prolungandone la durata per far vivere agli spettatori l’esperienza di un concerto dal vivo. Abbiamo curato l’audio con l’obiettivo di riprodurre in sala l’atmosfera tipica di una performance, e il grande lavoro di mixaggio ha contribuito a rendere questa sensazione davvero palpabile.
La figura dell’albero è emblematica all’interno del tuo docufilm: a partire da quello presente in copertina sul disco, sul retro del palco del concerto, ma anche quello sotto il quale si recava Daniele Silvestri sul Lungotevere per scrivere la sua musica, che poi scopriamo essere quello dove si fermava anche suo padre. Possiamo quindi leggere questo film come il tentativo di ricerca delle proprie radici?
Sì, si può interpretare in questo modo. L’albero, con le radici rivolte verso l’alto, non è solo un’immagine usata per evocare il legame profondo e le origini del rapporto, ma diventa una vera e propria metafora. Nel film, l’albero rappresenta non solo le radici – il punto di partenza – ma anche i rami e, soprattutto, i frutti, che simboleggiano la crescita, la diversità e i risultati di un percorso condiviso.
Quello che meraviglia è la spontaneità del tuo punto di vista, ben lontano da ogni tentativo di spettacolarizzazione. Cosa si aspettavano i tre artisti?
Effettivamente, la spontaneità e l’assenza di artificio sono state la chiave. La mia esperienza da indipendente si è arricchita in questo progetto grazie al supporto di una produzione solida, che mi ha offerto opportunità che non avrei mai potuto immaginare. I tre artisti mi hanno proposto il film con una fiducia totale, tanto da non voler nemmeno leggere le domande preparate. Hanno collaborato in maniera naturale, lasciando che le interviste e il materiale del repertorio parlassero da sé. Ad esempio, Niccolò Fabi, che conserva pochissimo materiale registrato, e Daniele Silvestri, con il suo ricco archivio di video, hanno trovato subito un equilibrio. Al primo sguardo sul lavoro, hanno avuto poco da ridire e si sono sentiti a loro agio, confermando che la spontaneità del racconto rispecchiava esattamente le loro aspettative.