Libri: Da una prospettiva eccedente – In dialogo con Antonio Capuano

Cominciamo col dire che Da una prospettiva eccedente – in dialogo con Antonio Capuano  è, a parere di chi scrive, un volume destinato a rimanere a lungo tra i più rappresentativi e intimi sul lavoro del cineasta napoletano.

Il mirabile lavoro svolto dai curatori Armando Andria, Alessia Brandoni e Fabrizio Croce si indirizza, per due ben terzi del volume, nella direzione del dialogo, del confronto diretto, senza mediazioni alcune, con Antonio Capuano. La forma scelta dai curatori si rivela fin da subito la migliore possibile per provare a restituire al lettore quel vulcano umano che è il regista napoletano. Restituire e, va detto, contenere, perché un ottimo lavoro di analisi e critica deve anche saper contenere l’oggetto della ricerca; ma come si contiene uno come Capuano? Uno che definisce il suo stesso cinema “di radice anarchica”, così come di radice anarchica è il suo approccio alla macchina da presa, e soprattutto alla scrittura. Come evidenziano acutamente gli autori dei saggi che concludono il volume, Antonio Capuano è un autore “contro il tempo”, aggiungerei anche contro l’ordine, creatore di una dimensione cinematografica iperreale e barocca, come la città che lo racchiude. E dunque, come si contiene uno come lui? Gli autori hanno scelto la soluzione più intelligente, ovvero microfoni accesi, percorsi più o meno premeditati, con ampie e bellissime digressioni, e la parola passa direttamente a lui, a Capuano che, con quella lingua che sembra solo sua, si racconta e prova anch’egli a comprendere il suo stesso cinema. Partiamo proprio dalla lingua.

Il linguaggio di Capuano (chi scrive è napoletano) sembra appartenere solo a lui. La specifica napoletanità delle sue espressioni, quel continuo collage coltissimo e popolarissimo che contraddistingue il suo parlare, è strenuamente difeso dai curatori, che trascrivono le parole del maestro così come gli escono di bocca. Non è una scelta banale, soprattutto trattandosi di un saggio critico, bensì coraggiosa e perfettamente funzionale alla gestione della suddetta anarchia che contraddistingue l’intervistato. Nessun tentativo di addomesticamento, un lavoro davvero mirabile di valorizzazione della specificità dell’autore, che rende Da una prospettiva eccedente, anche un saggio di piacevolissima lettura. L’intenso e ricco apparato fotografico inoltre contribuisce ad impreziosire il volume, con il racconto visivo del suo lavoro, dalle immagini in cui siede in costume da bagno dietro alla macchina da presa a quelle in cui chiacchiera, aggrappato a balconi, disteso a terra, in pose diversamente scomposte, con gli abitanti dei quartieri da lui ripresi, in particolare quella Sanità che rappresenta il cuore del suo cinema.

Parlare di cinema con Antonio Capuano si rivela impresa non semplice per i suoi intervistatori, che però sono abili a trasformare la difficoltà di “contenere” il maestro in una straordinaria occasione per restituire la vitalità che c’è dietro ai suoi pensieri. E si va così percorrendo strade imprevedibili. C’è molta arte contemporanea nei suoi riferimenti, molto Francis Bacon, Morandi, l’arte povera, per non parlare di Pasolini e tutto l’apparato Barocco che è parte di Napoli e del suo cinema.

La prospettiva, la poetica di Capuano è sempre eccedente, supera i bordi, li sommerge, li scavalca e il suo flusso diventa subito un dialogo intenso e imprevedibile. Chi conosce il suo cinema sa che è un autore il quale usa il cinema come una chiave per menti chiuse. Sempre schierato dal lato buio della storia che vuole raccontare, Capuano ha prodotto, soprattutto negli anni ’90, un cinema che da allora fatichiamo a ritrovare nel nostro contemporaneo.

Autore a volte pericoloso, così come lo sono le sue parole, soprattutto quando affronta i tempi più urgenti del suo cinema: la criminalità minorile, l’adolescenza, l’amore in tutte le sue forme, da quello luminoso (e lecito) a quello buio (illecito, impossibile ma non meno importante). Da non confondere con un atteggiamento provocatorio, quello di Capuano è uno sguardo che buca la realtà regolata culturalmente e socialmente dalla politica, dalla scuola, dalla buona educazione. Egli esplora il buio, con la torcia del suo cinema, e prova a raccontare che forse, nelle caverne più oscure del comportamento umano c’è un tesoro davvero prezioso. “A me mi piace il conflitto. Perché senza conflitto non si progredisce”, gli fa dire Paolo Sorrentino nel suo È Stata La Mano di Dio, e Capuano è proprio questo, un instancabile ricercatore di conflitti, con la visione di chi non sa stare al di sopra dei suoi personaggi, ma dentro, vicino, a volte anche al di sotto.

Così, questo lungo dialogo col regista di Vito e gli altri, è un’occasione per “sentire” (più che leggere) delle riflessioni che oggi probabilmente sarebbero percepite più scomode di un tempo. Quando parla, ad esempio, di quel film di debutto, dice che tutto sommato la vita del crimine è la più eccitante per dei ragazzini. Come biasimarli, hanno tutto e possono fare quello che vogliono. Sarebbe troppo banale e inutile cercare di rinchiudere Capuano, il suo cinema e la sua visione, nelle gabbie del moralismo borghese, o del politicamente corretto. Da qui nasce principalmente la sua importanza come autore cinematografico, e Da una prospettiva eccedente, riesce proprio a restituire questa sua “eccedenza”, questa sua meravigliosa e impossibile volontà di contenere tutto, raccontare tutto contemporaneamente, tra le pieghe del bene e del male.

«Tutto sta succedendo. Io vorrei che potessimo vedere tutto contemporaneamente… perché se guardi una cosa ne perdi un’altra e se ne vedi cento e perdi altre cento!». È una voracità dello sguardo che non è da confondere con il consumismo capitalistico a cui oggi i nostri sguardi sono costantemente sottoposti. Capuano vuole vedere tutto, ma ambisce a non raccontare niente, come avviene in pittura. «Il cinema è temporale. C’è un inizio e una fine. E quindi un film deve per forza possedere un arco di racconto che appunto si chiama drammaturgia. (…) Nel quadro, meno male, questo non c’è. (…) La pittura deve essere estremamente libera, estremamente toccante, deve arrivare subito all’osso. C’è tutto in un’unica scena: la scena che vedi è la scena iniziale e quella finale».

Per questo Capuano adora autori come Jarman, Herzog, Fassbinder, Lynch e soprattutto Luis Buñuel. Ma anche qui, nel suo mettere a nudo i suoi riferimenti culturali, Capuano, anarchico, barocco ed esuberante, ribadisce che rifiuta i riferimenti, soprattutto quando deve decidere dove mettere la macchina da presa. «Paolo (Sorrentino) ogni volta mi diceva: “Antò, com’è che hai pensato di fare questa inquadratura?”. E io gli rispondevo: Che cazzo ne saccio io?”».

Da una prospettiva eccedente ha anche però il merito di non limitarsi all’incontro con Capuano. L’ultima parte del volume contiene infatti i saggi critici di Alessia Brandoni, Fabrizio Croce e Armando Andria. Il primo analizza sequenza per sequenza Vito e gli altri, e l’analisi diventa subito un’acutissima indagine sui grandi temi del film. Il rapporto con la TV, il fuori campo, il complesso e suggestivo apparato sonoro che fa di Vito uno dei film più stratificati a livello di senso di Capuano. Fabrizio Croce, partendo da Pier Paolo Pasolini, traccia un ritratto dei temi alla base di Pianese Nunzio, che ha i lineamenti di altri autori, contemporanei e non, rispetto a Capuano: Gregg Araki e Jean Genet, o meglio il Genet visto con gli occhi di Sartre. L’obiettivo di Capuano di raccontare sempre l’altrove dell’amore, l’oscuro, il lato in ombra del complesso pianeta sentimentale, in Pianese Nunzio raggiunge vette auliche, simboliche e allo stesso tempo concrete, dove lo stile iperreale, a tratti onirico, si fonda con l’irruzione dei fatti, delle confessioni dei personaggi che guardano in camera, come se si trovassero davanti al giudice. Quale giudice? Il pubblico conosce i fatti e si pone sempre in una posizione da sentenza, il pubblico che divide, tira linee rette e separa i buoni dai cattivi.

Lo sguardo di Capuano invece non è mai giudicante, soprattutto quando è permeato dall’ossessione per il tempo del racconto, che si espande e si frammenta fino a non avere tempo, appunto, per l’indagine moralista sul bene e sul male, o per la scelta chiara e invalicabile di un solo punto di vista, come ben ricorda Armando Andria nel saggio conclusivo del volume. Il tempo frenetico e inafferrabile e il tempo del divenire sono i due grandi amici/nemici del nostro autore, che esordisce a 51 anni dichiarando a posteriori “Quando giravo Vito e gli altri ero alla riceva di una via d’uscita dal cinema più che di un modo per entrarvi”. Di complessi rapporti col tempo, con la memoria, la rielaborazione dei fatti, si costituisce in definitiva il cinema di Capuano. La sua filmografia evolve parallelamente con una diversa attitudine temporale, non perde mai in termini di frenesia, Bagnoli Jungle lo dimostra, e va affacciandosi ad una nuova fase, il progetto di documentario su Nando, il protagonista di Vito, in cui l’autore cercherà attraverso il ricordo e l’evoluzione umana di un bambino attore, un nuovo porto dove il suo sguardo possa approdare.


Da una prospettiva eccedente – in dialogo con Antonio Capuano  a cura di Armando Andria, Alessia Brandoni e Fabrizio Croce, Artdigiland, Roma 2022,  242 pagine, 22 euro

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