Il momento cinematograficamente più forte di questa appena passata edizione degli Academy Awards (vedi per l’elenco completo dei premi I vincitori degli Oscar 2022) non l’abbiamo visto nella clip di un film, ma durante la diretta, dal “vero” : parliamo ovviamente del pugno o schiaffone in faccia che un iracondo Will Smith ha sferrato al comico/presentatore Chris Rock, reo di aver fatto una battuta, sicuramente di pessimo gusto, riguardo Jada Pinkett, la moglie di Smith, completamente calva a causa di un’alopecia di cui soffre ormai da tempo, alla quale è stato ironicamente augurato di essere la protagonista di un ipotetico sequel di Soldato Jane (il famoso film di Ridley Scott in cui Demi Moore, aspirante marine, si rapava i capelli a zero). Tanto è bastato per far alzare il bad boy Will dal suo posto e attraversare il palco con incedere fiero e minaccioso per rimettere al suo posto il fisicamente minuto Rock.
Tutto questo dopo che l’attrice ucraina Mila Kunis aveva invitato tutti, inclusi gli imminenti duellanti, a un minuto di silenzio per le vittime della guerra e prima che lo stesso Smith, premiato come miglior attore per Una famiglia vincente – King Richard invocasse nel discorso di ringraziamento, quasi come una forma di giustificazione del proprio atto, tra lacrime di vergogna ed esaltazione, la figura, da lui interpretata, del padre delle tenniste Serena e Venus Williams, simbolo secondo lui di quegli uomini disposti a fare anche delle “cose folli” per proteggere la propria famiglia dalla derisione e dalla mancanza di rispetto altrui … una sequenza di momenti che esplica e metta in scena molto bene il senso dell’assegnazione di questi premi Oscar, non solo, come sappiamo, effimera e talvolta grottesca celebrazione di una comunità autoriferita in cerca d’autore, ma anche iconica unità di misura per tastare lo stato delle cose nella società dello spettacolo e nel mondo del cinema.
Se volessimo considerare l’impulsivo gesto di Will Smith e le sue successive parole riparatrici un elogio del conservatorismo con la concessione di qualche sprazzo di intemperanza, la stessa lettura la potremmo applicare anche alla proclamazione dei vincitori: l’unica intemperanza in questo caso, nonostante le premesse di un ben più ricco e annunciato trionfo, è rappresentata dall’Oscar per la miglior regia a Jane Campion per Il potere del cane che di candidature ne aveva ricevute 12, forse il peggior bilancio della storia tra nominations ottenute e realizzate. Un messaggio di ridimensionamento, preciso e chiaro, non solo del potere di Netflix, che produce e distribuisce il film della Campion, rispetto a quello delle altre piattaforme, ma anche della concezione e della visione di un cinema ambiguo, complesso, stratificato, che destruttura dall’interno i codici narrativi e linguistici del western , trasformandolo in un perturbante, desolato, erotico film di frontiera senza più epica dove il romanticismo sublima e manipola e il paesaggio inghiotte e uccide.
Meglio quindi premiare nella categoria principale di miglior film, l’outsider digeribile dalla cultura mainstream, I segni del cuore – CODA: qualcosa di piccolo, intimo, che parla di famiglia in un senso valoriale, ottimistico, senza dimenticare le problematicità, ma in un’ottica comprensibile e risolvibile. Scritto e diretto da Sian Heder ( che soffia, sempre alla Campion , anche il significativo premio per la sceneggiatura non originale ) il film ha inoltre il viatico della beatificazione hollywoodiana in quanto la storia è ambientata all’interno di una comunità di persone sordomute (si tratta del remake del film francese La famiglia Belier di Eric Lartigau), e dunque possiede quell’aura progressista e inclusiva molto più rasserenante e accettabile dei chiaroscuri in cui sono avvolti i cowboy fluidi e imperscrutabili di The Power of the Dog; e uno dei personaggi principali è un patriarca duro e dal cuore d’oro (interpretato da Tony Kotsur, attore realmente sordomuto come la maggior parte del cast , premiato come miglior non protagonista maschile), che in fondo fa il palio con il Richard Williams di Will Smith e con tutto ciò che mette dei paletti fissi e dei punti di riferimento intorno al campo minato in cui qualche esplosione di rabbia è concessa, benché rientri poi nei ranghi di una lacrima, di un pentimento e di una riconciliazione.
E a proposito di segnare un territorio di appartenenza, in una lettura meta cinematografica delle sue vittorie, il Dune di Dennis Villeneuve, sicuramente più omologato e conforme della versione visionaria e viscerale di David Lynch, traccia il perimetro di tutti i premi tecnici (scene, suono, montaggio, fotografia, effetti speciali, musica) che ne fanno ufficialmente il nuovo prototipo dello sci-fiction raffinato e “di tendenza” (ma sicuramente di minor impatto popolare, da questo punto di vista, del clamorosamente ignorato Spider Man: No Way Home).
Per quanto riguarda le attrici, si continua poi ad andare sul classico e il prevedibile, seppur di qualità: Jessica Chastain, la cui bellezza diafana e luminosa non ne ha mai oscurato la bravura, è costretta a passare per il calvario già attraversato in passato dalle varie Charlize Theron (Monster) e Nicole Kidman (The Hours) , ovvero protesi facciali e nasi posticci, per arrivare alla vittoria, comunque meritata, grazie al personaggio eccessivo, sopra le righe, e realmente esistito (altri tre cliché da Oscar) della telepredicatrice e cantante gospel ne Gli occhi di Tammy Faye, un’altra storia di ascesa, caduta, espiazione e redenzione – ben più sorprendente la performance straniante, nevrotica e insieme dolente di Kristen Stewart, a cui bastano un taglio di capelli, un tailleur e un credibile accento britannico per incarnare un’inedita Lady Diana in Spencer di Pablo Larraín.
La brava e simpatica Ariana De Bose, miglior attrice non protagonista per l’ispirato e sentimentale West Side Story spielberghiano, vince per lo stesso ruolo, la vulcanica e sensuale Anita, per il quale esattamente cinquant’anni prima Rita Moreno (che è presente , in un ruolo speculare, anche nel remake) aveva vinto nella stessa categoria con la versione di Jerome Robbins e Robert Wise, in un gioco di specchi , citazioni e rimandi tanto caro evidentemente agli aficionados votanti degli Oscar. Ma forse il segno più eloquente del bisogno di mantenere la tenuta di un aspetto conservativo e rassicurante ora che il mondo sembra che stia per esplodere viene dall’Oscar per la sceneggiatura originale , assegnato all’ex enfant prodige Kenneth Branagh per il suo dovuto e forse non necessario Amarcord personale sull’infanzia irlandese, Belfast: la storia “più originale” dunque ha ancora a che fare con la famiglia, la tradizione, i legami, l’orgoglio (virato in un ‘ottica fanciullesca e maschile) , il tempo come memoria, fotografia , stato mentale in cui rifugiarsi e non come flusso, trasformazione, movimento. Comprensibile, in questa logica deprimente, la completa esclusione dai premi di Flee (primo film candidato in tre categorie differenti: documentario, animazione, film internazionale), che invece mette in rapporto dinamico passato e presente, sovrappone livelli e linguaggi , il personale e il collettivo, il privato e il politico, nella storia dell’esodo di un profugo e del coming out di un omosessuale, qualcosa che ci parla della contemporaneità e su cui forse è meglio non mettere un accento o sollevare una riflessione.
In sottofondo, ci consoliamo con l’immagine espansa e dilatata di Drive My Car – Miglior film straniero, assolutamente più meritato, risparmiandoci il campanilismo di sorta, di È stata la mano di Dio di Paolo Sorrentino – che continua a portarci in un altrove, ancora più sorprendente quando si silenziano i dialoghi grondanti letteratura, affacciato su un orizzonte sempre nuovo (con alle spalle un tramonto rosso di rimorsi e sensi di colpa). E a quel punto va bene anche tornare al presente del Dolby Theatre di Hollywood e ascoltare Bille Eilish (miglior canzone originale insieme al fratello Finneas O’Connel) che ha avuto l’ardire di cantare la fine di James Bond, calando il sipario su un immaginario e lasciandoci anche l’epiteto giusto (almeno lui un po’ ambiguo) per questa cerimonia: No time to die.