Belfast di Kenneth Branagh

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Lo diciamo con franchezza: non ricordavamo proprio che fosse nato a Belfast da una famiglia di operai protestanti e che avesse avuto memoria degli inizi del conflitto nord-irlandese. Parliamo, sì, proprio di lui, dell’estroso Kenneth Branagh, il celebre attore e regista di formazione teatrale, allievo predestinato di Laurence Olivier e poi noto soprattutto per le riduzioni cinematografiche delle opere di William Shakespeare, a partire dall’Enrico V del 1988 e poi, via via, di altri adattamenti come Molto rumore per nulla (1993), Hamlet (1996), As You Like It – Come vi piace (2006). Senza dimenticare tanti altri film di successo, più o meno buoni, da lui diretti oltre a importanti interpretazioni in opere di suoi colleghi o una valanga di riconoscimenti e premi in giro per il mondo. Insomma, uno dei cineasti più affermati (anche se spesso controverso) del cinema contemporaneo internazionale.

Evidentemente deve esser scattato qualcosa in testa a Branagh, visto che ha deciso, a più di mezzo secolo di distanza dagli eventi, di scrivere, dirigere oltre che produrre, quello che ha definito il suo film “più personale”, riguardante l’infanzia a Belfast, prima di lasciare l’ Irlanda del Nord a nove anni per trasferirsi con la famiglia in Inghilterra.

Siamo immediatamente in medias res, nel fatidico agosto 1969, quando nella capitale nordirlandese iniziarono violenti scontri condotti da estremisti protestanti per cacciare i cattolici dalle loro abitazioni in quelle zone che a Belfast, sino a quel momento, avevano visto la coabitazione pacifica della working class di entrambe le religioni – si tratta della prima vera scintilla che ha appiccato fuoco ad una “guerra a bassa intensità” che si è trascinata sino alla fine degli anni Novanta (e che in realtà non è del tutto conclusa neanche oggi).

Presentato al Telluride Film Festival e quello di Toronto nello scorso settembre (ma non a Venezia, primo campanello d’allarme bensì alla Festa di  Roma), Belfast adesso giunge anche nelle sale del nostro paese. Girato in un fascinoso bianco e nero, ormai tornato molto di moda, – salvo i titoli di testa e di coda (o quando ci sono delle scene di film o di uno spettacolo teatrale – come poteva mancare in Kenneth Branagh!) -, l’ultima opera del regista irlandese è dunque una storia semi-autobiografica che narra la dipartita dalla patria della sua famiglia, abbiamo detto protestante, ma fermamente contraria, a quanto si narra nel film, a quell’estremismo che predicava l’odio religioso e l’intolleranza violenta tra gli opposti schieramenti.

“Gli irlandesi sono destinati ad emigrare” si dice in un momento di Belfast, ed è quanto accade, obtorto collo, a conclusione della vicenda della famiglia Branagh, nelle quale, su pressione del padre – un brav’uomo  che ha sperperato il poco denaro della famiglia nelle scommesse e cerca di riparare i danni fatti ma soprattutto non vuole accettare il clima di estremismo – anche la madre si convincere a lasciare definitivamente la città natale, il luogo in cui ha sempre vissuto.

In due parole il film ci narra, dunque, queste vicende dal punto di vista di un ragazzino di nove anni, un po’ ingenuo e secchione, che si trova ad affrontare l’inizio fatale dei “Troubles” con un padre (Jamie Dornan), parecchio assente, che lavora in Inghilterra e una madre (Caitriona Balfe) restata a casa a gestire la quotidianità, insieme ai due simpatici e arzilli nonni anziani (Judi Dench e Ciarán Hinds), in un momento di cambiamento radicale e di scontro frontale che porterà ad una e propria guerra civile.

Insieme alla Storia con la S maiuscola, ci viene, dunque, narrato soprattutto un Coming of Age, in cui un giovane alle soglie dell’adolescenza vive, oltre alle vicende familiari e del suo ambiente, i turbamenti amorosi e l’innamoramento con una bella compagna di classe che poi scopriremo essere della religione nemica, quella cattolica.

Su questa materia affascinante e incandescente, Kenneth Branagh ci ha costruito un film, certo ben interpretato e di corretta confezione, ma sostanzialmente algido, inerte e senza vere idee di sostanza, come se – per quanto parzialmente autobiografica – la storia non gli appartenesse nell’intimo. Se non a tratti, quando la narrazione, abbastanza scontata, finalmente abbandona il freno a mano tirato che per lunghi tratti la ha bloccata, e finalmente ci regala un pugno di briciole d’emozione. Il che accade poche volte ma accade, per fortuna.

In sala dal 24 febbraio 


Belfast – Regia e sceneggiatura: Kenneth Branagh; fotografia: Haris Zambarloukos;  montaggio: Úna Ní Dhonghaíle; musica: Patrick Doyle; scenografia: Jim Clay; costumi: Charlotte Walter; interpreti: Jamie Dornan, Caitriona Balfe, Judi Dench, Ciarán Hinds, Lara McDonnell, Jude Hill, Gerard Horan, Turlough Convery, Conor MacNeill, Bríd Brennan, Gerard McCarthy, Sid Sagar, Zak Holland, Barnaby Chambers, Olive Tennant, Josie Walker; produzione: Kenneth Branagh, Laura Berwick, Becca Kovacik, Tamar Thomas per TKBC; origine: Gran Bretagna, 2021; durata: 97’; distribuzione: Universal Pictures.

 

 

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