Dune

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Pare che a Denis Villeneuve piacciano le sfide impossibili, spesso basate sul rimettere in scena veri e propri cult già ampiamente entrati nella storia del cinema. Chi, se non lui, poteva farsi carico della colossale Metropolis generatasi dagli incubi di Ridley Scott? Chi, se non lui, avrebbe osato riallestire le memorabili distopie di Philip Kindred Dick e dei suoi cacciatori di androidi, trasportando il celebre Rick Deckard (nel nostro immaginario, l’indimenticabile Harrison Ford) in un 2049 dalle sfumature decisamente più lugubri? Chi sarebbe riuscito a trasformare l’accelerato in moderato, elargendo al tragico futurismo di Blade Runner quella distensione metafisica e barocca che spesso accompagna il genere fantascientifico? Chi, infine, sarebbe mai riuscito a ricodificare completamente il termine cyberpunk, donandogli il torpore necessario per coniugarlo nel nostro presente?

La forza del regista canadese, infatti, pare risiedere proprio nella consapevolezza e nella maniacale pignoleria che contraddistinguono il suo occhio e che contribuiscono a rallentare oltremisura i ritmi narrativi – perfino Scott, di fronte al tanto discusso sequel, finisce per alzare le mani. Consapevole, meticoloso, estenuante, visionario: Villeneuve sembra avere tutte le carte in regola per entrare nell’ambitissimo limbo del “o mi ami, o mi odi”.

La regola fondamentale, per ogni cineasta che si rispetti, è continuare ad alzare la famosa asticella – magari cambiando universo. Tratto dall’omonimo ciclo romanzesco targato Frank Herbert (la musa ispiratrice di Star Wars, tanto per intenderci), Dune investe la laguna veneziana con una foga e con uno slancio di gran lunga superiori alle aspettative. Certo, le critiche non mancheranno: la cinepresa continua ad indugiare, lo slow motion seguita a sfinirci, le tinte sature ci accecano, i personaggi proseguono indisturbati a parlare una lingua che nessuno comprende. Ma il macrocosmo di Herbert si presta volentieri alla distensione, alla stasi, al sonnambulismo – se non altro, per ragioni diegetiche.

La trama si muove in un sottobosco intergalattico dai contorni feudali, sospeso in un Medioevo talmente lontano da risultare evanescente. Ci troviamo, infatti, alle soglie dell’Undicesimo Millennio: al centro del mondo fino ad ora conosciuto, giace il pianeta desertico Arrakis, una sorta di Australia sospesa nello spazio aperto e abitata dai nativi Fremen. Qui cresce la Spezia, sostanza psicotropa dalle proprietà magiche, capace di prolungare la durata della vita terrena, nonché di alimentare all’infinito qualsiasi mezzo di trasporto. Questa strana polvere cristallina è l’equivalente tangibile della Teoria del tutto, in quanto permette di trascendere le distanze in termini fisici e temporali, conferendo alle astronavi il potere di spostarsi con agilità fra gli astri.

Se l’Imperatore decide di offrire il pianeta rosso al potente casato degli Atreides, c’è un motivo ben preciso – ad esempio, quello di distruggerne l’ascesa: il deserto uccide per sua proprietà intrinseca, fra le sabbie si nascondono i terribili mercenari Harkonnen, l’elisir di lunga vita rappresentato dalla Spezia conduce alla morte per via diretta. Il dono regale, per il duca Leto (Oscar Isaac) e la sua compagna Jessica (Rebecca Ferguson, qui nei panni di una matriarca Bene Gesserit), “non è affatto un dono”. Forse, però, si tratta di destino. Lo capiamo dagli indecifrabili sogni che illuminano e tormentano il giovane erede Paul (Timothée Chalamet), mostrandogli brandelli di una sorte ancora ignota ma già inscritta nella storia.

L’atlante concepito da Frank Herbert è simile al nostro, ma si sviluppa su piani più complessi, rimescolando antico e moderno, superstizione e matematica, azione e riflessione: pane per gli ambiziosi denti di Villeneuve. Il quale sfodera le proverbiali capacità retoriche, esibendosi in complessi virtuosismi visivi e imparando a direzionare le proprie inclinazioni oniriche. Non a caso, la più grande pecca (o fortuna?) di Dune è il narcisismo: le immagini si beano di loro stesse, si bastano, e rigettano l’usuale stato di sudditanza che le rilegherebbe a semplici serve della narrazione. Gli scontri (questa volta numerosissimi) non bastano a cancellare l’autoreferenzialità del regista, che si diverte ad inserire leggende ancestrali e fisica quantistica in un quadro dalle geometrie perfette. L’intero film si basa sulla regola del troppo: i personaggi sono gargantueschi, gli scenari apocalittici, la colonna sonora frastorna l’auditorio e lo imprigiona in una claustrofobia assordante, mentre buona parte del racconto rimane inaccessibile – e non solo in vista di un ipotetico secondo capitolo. Il risultato potrebbe riassumersi nella cara e vecchia formula “odi et amo”. Alla quale Ridley Scott, nel 2017, rispose scuotendo la testa.

In sala dal 16 settembre


Cast & Credits

Dune –  Regia: Denis Villeneuve; sceneggiatura: Jon Spaihts, Denis Villeneuve, Eric Roth; fotografia: Greig Fraser; montaggio: Joe Walker; interpreti: Timothée Chalamet (Paul Atreides), Rebecca Ferguson (Lady Jessica), Oscar Isaac (duca Leto Atreides), Josh Brolin (Gurney Halleck), Stellan Skarsgård (barone Vladimir Harkonnen), Dave Bautista (Glossu Rabban), Stephen McKinley Henderson (Thufir Hawat), Zendaya (Chani Kynes), Chang Chen (dott. Wellington Yueh), Sharon Duncan-Brewster (dott.ssa Liet-Kynes), Charlotte Rampling (reverenda madre Gaius Helen Mohiam), Jason Momoa (Duncan Idaho), Javier Bardem (Stilgar), David Dastmalchian (Piter De Vries); produzione: Legendary Pictures, Villeneuve Films, Warner Bros.; origine: USA, Ungheria, Giordania, Emirati Arabi Uniti, Norvegia, Canada 2021; durata: 155’.

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