PERSO (Perugia Social Film Festival) (X° Edizione, 27 settembre – 9 ottobre 2024 ): a proposito del vincitore A Transformação de Canuto e di altri film in concorso.

Se  può essere rintracciato un minimo denominatore comune tra i film di questa edizione del PERSO, a partire dall’opera vincitrice, il brasiliano A Transformação de Canuto di Ariel Kuaray Ortega e Ernesto de Carvalho,  ciò che predomina in alcuni dei titoli presentati nel concorso è l’attraversamento spaziale, temporale e socio-culturale di sguardi messi in relazione da distanze ancora più siderali e talvolta abissali di quelle che possiamo immaginare: la visione razionale, metalinguistica e antropocentrica occidentale alla ricerca di un contatto con l’arcaicità, la visceralità e l’impermeabilità (a decodificazioni e interpretazioni)  di un senso del sacro e  del rituale coltivato come struttura germinale e portante, all’interno delle comunità di paesi situati agli estremi poli della terra. Un confronto talvolta impossibile, o quantomeno faticoso e dolente nella sua  farsi e disfarsi in una  processualità che si interroga, e ci interroga, sul modo di concepire prima e di vedere poi l’alterità e la differenza; c’è in più il carico della colpa, del rimorso e della falsa coscienza post-colonialista, uno squarcio che ha eliminato e omesso, quando non proprio manipolato, l’invasività distruttiva dell’uomo industrializzato e capitalizzato sugli eco sistemi di civiltà molto più aperte a una t relazione trasformatrice in primis con la natura.

Di una trasformazione raccontano appunto i due filmmaker, ma la iscrivono immediatamente nel contesto dove è avvenuta, che già di per sé racconta ed evoca una stratificazione di dimensioni: il paesaggio umano e geografico è quello di un piccolo villaggio abitato dai Mbyà-Guaranì, un gruppo etnico discendente dalla popolazioni indigene esistenti prima del processo di colonizzazione europea, situatosi, dopo un incessante serie di migrazioni, in una terra di mezzo tra il Brasile e l’Argentina. Ed è proprio Kuaray Ortega, personalità emblematica e pioniera nel contribuire a creare e far conoscere la cinematografia indigena,  che, attraverso l’interazione e l’accompagnamento verso la morte del nonno gravemente malato, ricostruisce la figura mitizzata e leggendaria di Canuto, un uomo vissuto alcuni anni prima e del quale si narra la mutazione in giaguaro, animale con un significato fortemente simbolico nella cultura religiosa Guaranì. Coadiuvato da De Cravalho, la controparte bianca e occidentale, Ariel si mette proprio in scena dentro la foresta di una memoria che non è solo privata o intima, nonostante la necessità, come ci svela la sequenza iniziale dell’incipit di un possibile film girato precedentemente, con al centro la figura del nonno ormai morente, ma è collettiva e collocata in una storia e in un immaginario più estesi. Il dispositivo cinematografico, con l’entrata in campo di videocamere e macchine fotografie, è svelato e posizionato, non si ha la presunzione e la tracotanza di una vista dominante dall’altro e dall’esterno, l’occhio è proprio ad altezza e a misura degli abitanti e degli ambienti, con questo perdendosi dentro l’erba, la terra , i fuochi circostanti vicini e lontani. L’ autobiografismo , che è stata molto spesso la spinta propulsiva per mettere in atto la funzione di ricerca e testimonianza sulla realtà insita nella pratica documentaria, allarga ad una riflessione ampia e complessa sul concetto di identità, collegando,  in una circolarità di vita/trasformazione/morte il personaggio di Canuto (una costruzione in itinere del genius loci di quel luogo) con la presenza tangibile e udibile nella sua rugosità e concitata litania del nonno di Kuaray Ortega.

L’animalità, il suo recupero e risveglio che riguarda proprio la potenza della parte irrazionale contenuta dall’umano e spesso repressa e controllata fino a farla diventare la proiezione di una mostruosità e di un’abiezione- e A Transformação de Canuto trascende il suo comunque intenso e avvolgente approccio affettivo per irradiarsi di suggestioni quasi horror-  è un elemento che si misura con sguardi e sensibilità diverse, polarizzate, come si diceva, nelle vastità territoriali di un altro titolo: Piblokto, diretto ancora da una coppia di autori , Anastasia Shubina e Timofey Glinin , russi di San Pietroburgo, provenienti dunque da un’altra vasta terra di confine e di confini, ci pone con una dirompente e brutale secchezza di linguaggio davanti a quello che sembra apparentemente, nella sua frontalità, un fenomeno di esaltazione e di isteria collettiva; si tratta in realtà di un rito, il “Piblokto” appunto, ancora una volta dalla determinate valenza archetipica e fondativa, praticato dai popoli che abitano  nella desolata e sperduta regione del Chukotka, nell’Oceano Artico. Isolamento che equivale a una non conoscenza ma anche a un pregiudizio e a forme di stigmatizzazione nell’osservazione di comportamenti che appaiono eccessivi e crudeli perché rivolti agli animali, in particolare trichechi e orsi, uccisi non solo per il loro valore di sostentamento e di nutrimento, ma in un’eccedenza mistica di gesto che tende a preservare, a proteggere, a stabilire i confini delle dimensioni interscambiabili tra spiritualità animale e spiritualità umana; segni che non vanno ricercati in un aldilà astratto e raccontato, ma sulla terra e nell’oceano, nel ritmo cadenzato di un canto o di una preghiera.

Meno immersivo e graduale di A Transformação de Canuto, l’approccio di Shubina e Glinin, una volta superato l’impatto disturbante del modo in cui la messa a morte è integrata in un processo di identitaria costruzione sociale, cerca  di mettere in crisi l’ottusità del senso comune dello spettatore, da una parte attirato morbosamente dalla rappresentazione di una violenza, tra l’altro percepita come esotica e bizzarra, e dall’altro privato del bisogno di avere una spiegazione logica alla prevalente percezione di mattanza indiscriminata e fuori misura, e di ricostruire un quadro perimetrato e distanziato. La confort zone estraniata e safe dell’uomo civilizzato contro l’uomo primitivo, quando in realtà quelle pulsioni vengono addomesticate e sublimate in uno sguardo/immaginario da decostruire anche a colpi di accetta, secondo i registi. Si tratta di una prospettiva che rimane  interna e attaccata alla restituzione esperienziale (la parola piblokto riproduce in forma onomatopeica e di ossimoro, rispetto al suo suono morbido, lo stato di sfrenatezza ed eccitazione del rituale) delle pratiche culturali,  mettendo fortemente in discussione la nostra limitatezza del come, a parte del cosa, guardare.

In questo percorso tracciato dalla mappatura del PERSO dentro espressioni primordiali dell’umanità, il punto di vista più problematico è forse quello portato dallo spagnolo Raul Alaejos in Object of study, titolo che già annuncia l’ironica tesi provocatoria da dimostrare: gli Inuit che popolano la lande ghiacciate del Polo Nord sono ciò che è sopravvissuto di un agghiacciante esperimento di suprematismo imposto da due esploratori  americani agli inizi del Novecento, che decisero di mettere incinta le donne inuit per dimostrare una pericolosa e spregiudicata teoria: la generazione di una super razza,  l’incrocio eugenetico, in anticipo pure sui nazisti, tra le qualità fisiche degli eschimesi e quelle intellettuali degli occidentali anglofoni. Da una simile follia sono comunque  state generate delle persone, susseguitesi nell’arco di molte generazioni fino ad oggi, che Alaejos filma nella frontale e oggettivizzante distanza di un argomento di studio, della constatazione di un dato, della sintesi di una tesi. Magari la volontà era quella di dimostrare la vacuità dello sguardo coloniale che si limita a mettere in posa, a coreografare, a non distinguere quasi, nella maniacalità ossessiva e autistica della messa in scena tra umano e non umano, figura e sfondo, necessario e accessorio. È comprensibile, solo ricostruendo queste tre ipotesi di dialettica etica ed estetica con i popoli indigeni , che a prevalere nella preferenze della giuria sia stata un’opera come quella brasiliana che contiene e restituisce il respiro e l’orizzonte di un reale in grado di essere magico e straniante, ossessionato e in ascolto, documento e affabulazione. Una zona intersezionale dove il cinema è  il permanente fuori campo di tutte le sue possibilità.

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