UnArchive-Found Footage Fest (3° Edizione, 27 maggio-1 giugno): I’m Not Everything I Want to Be di Klára Tasovská (Premio per il Miglior riuso creativo – Giuria studenti)

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Documentario frutto dell’incontro tra la regista ceca Klára Tasovská e la fotografa Libuše Jarcovjáková, artista nata in Cecoslovacchia e praticamente rimasta sconosciuta fino alla soglia dei settant’anni quando, grazie alla selezione di oltre duecento scatti, ha presentato la mostra “Evokativ” presso il prestigioso festival fotografico “Rencontres d’Arles”.
La regista conosce Jarcovjáková durante la realizzazione di un film sulla sua vita, commissionato dalla televisione ceca, all’interno di un recupero e di una valorizzazione della sua opera, e insieme decidono di proseguire l’incontro all’interno di una maggiore cornice creativa, quale è effettivamente quella che contiene gli ottanta minuti di durata di questo bel lungometraggio. E di bordi e frontiere mobili che vengono continuamente attraversate, trasgredite, talvolta distrutte, infine ritrovate, in una sorta di road movie underground composto di immagini fisse (il vasto e caotico archivio della fotografa consistente in oltre 70.000 foto), musica, sound designer e voice over (quella della stessa Jarcovjáková), che include la lettura di stralci dai suoi diari, si tratta inI’m Not Everything I Want to Be. Titolo evocativo di quello spaesamento e frammentarietà che ha accompagnato per tutta la vita l’identità e il lavoro della fotografa. Gli scatti che vediamo, risalgono infatti agli anni che dalla Primavera di Praga arrivano al 1989, anno cruciale che trova la fotografa praghese risiedere proprio a Berlino. Molte delle fotografie mostrano la vita della working class praghese durante la normalizzazione sovietica, lungo periodo oscurantista e illiberale che ha segnato migliaia di esistenze con un’oppressione vissuta a partire dalle esigenze quotidiane e dalle scelte esistenziali.
Femminista senza aver potuto ancora avere un movimento femminista ad accoglierla, la giovane fotografa abbraccia i locali dei quartieri popolari, e dopo quelli dell’underground, in cerca di intensità, autenticità e riconoscimento, portando sempre la macchina fotografica con sé. In modo esperenziale e performativo, diremmo, spinta dalla ribellione e dal bisogno di essere vista ma anche dal suo opposto, vale a dire dalla timidezza, come rivela lei stessa. “Libuše Jarcovjáková è la Nan Goldin della Praga sovietica”, così ha scritto “The Ney York Times”. Ma oltre alla vicinanza con la fotografa e attivista statunitense quanto alla vertiginosa e affettiva rappresentazione del sé e del contesto in cui esso, a partire dal corpo, agisce (e insieme patisce, in quella sprezzatura oscillante tra determinazione e malinconia), risuona l’assonanza con un’altra grande fotografa del ‘900, Diane Arbus, della quale nel documentario appare per un secondo la nota immagine delle due gemelle “ripresa” anche da Stanley Kubrick in Shining, con cui sembra condividere oltre all’attrazione e alla pietas per la marginalità, anche una sorta di inclinazione identitaria: “mi raffiguro spesso come una bambina cui un adulto le si rivolge con un rimprovero: perché non sei pronta?” (Diane Arbus). Un senso di inadeguatezza e paura impresso, con violenta evidenza, da una società oppressiva e patriarcale.
La tanta vita documentata attraverso foto e diari prende forma nuova e felice nell’enorme lavoro di montaggio composto da Tasovská, teso tra la rappresentazione della realtà espressa negli scatti e l’invenzione poetica che con coraggio non si tira indietro rispetto alla potenza espressiva di Jarcovjáková, forza intrisa anche di scissioni, oscurità e momenti distruttivi (da un suo diario spunta fuori anche Nietzsche). Come anche sorprendente è l’atmosfera costruita attraverso la texture del suono: non solo strumento con cui fornire elementi connotativi, o meglio di racconto, all’alternarsi delle numerose fotografie, ma anche dispositivo vibrante e magnetico con cui mettere in movimento le stesse immagini fisse.
Agnès Varda, parlando del suo modo di fare cinema (la nota invenzione, anche linguistica, della cinécriture), rivela che “la cinécriture non è la sceneggiatura, è quello che sta tra le passeggiate solitarie, le scelte, l’ispirazione, le parole scritte, le riprese, il montaggio; il film si realizza attraverso tutti questi momenti. Sto al montaggio nove ore al giorno perché è lì che il film prende forma e sprigiona la sua sensibilità in modo calcolato, lavorato, manipolato e corretto fino all’ultimo istante”. Una dimensione progettuale che trova dimora e forma anche nello splendido lavoro, forse meno solitario, di Tasovská e Jarcovjáková.


I’m Not Everything I Want to Be (Jeste nejsem, kým chci být)Regia: Tamara Stepanyan; sceneggiatura: Alexander Kashcheev, Klára Tasovská; montaggio: Alexander Kashcheev; musiche: Prokop Korb, Adam Matej, Oliver Torr; produzione: Lukáš Kokeš, Klára Tasovská per Mischief Films, Nutprodukcia, Somatic Films; origine: Repubblica Ceca/ Slovacchia/ Austria, 2024; durata: 90 minuti.

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