UnArchive-Found Footage Fest (3° Edizione, 27 maggio-1 giugno): My Armenian Phantoms di Tamara Stepanyan (Menzione speciale per il lungometraggio – Giuria studenti)

La memoria di un paese, la memoria del cinema, la memoria di una vita. O, meglio, la memoria di un paese che è la memoria del cinema che è la memoria di una vita. Tamara Sepanyan, fin dall’overture del suo film Mes fantômes arméniens, dichiara di voler indagare in maniera cosi personale e cosi collettiva quella che non è tanto un’equivalenza o una forma di identificazione e sovrapposizione. L’approccio è stratificato ma strutturato con una lucidità e una precisione filologica attribuibili alla filmmaker cinefila che, attraverso il diaristico racconto della propria voce over, introduce subito il livello autobiografico: si tratta di una lettera rivolta al padre attore, nella quale, con un tono sommesso e in bilico tra l’analisi acuta e la toccante partecipazione, attraversa l’inedita storia del cinema armeno, non seguendo una logica esplicativa o cronologica.

Il nesso sono sempre le parole che la figlia avrebbe voluto rivolgere al genitore, il quale le ha fatto provare, fin da ragazzina, il desiderio di far parte di un mondo popolato di rappresentazioni ed  elaborazioni creative della realtà, rispetto peraltro  ad una condizione come quella dell’ Armenia, segnata fin nel profondo delle sue viscere da traumi e da tragedie così concreti e segnanti. La linea genealogica, che riguarda anche i nonni paterni proprietari di uno studio di riprese e di registrazione cinematografico, sembra prevalentemente maschile (la madre, che suonava il violoncello, non viene quasi mai citata e appare, forse, in un fotogramma nel quale accompagna l’istrionico marito che canta) nonostante ci sia la necessità di trovare tracce di uno sguardo anche femminile, davvero marginale, in una produzione cinematografica improntata come visione e come racconto su una prospettiva ad appannaggio esclusivo degli uomini. Ma la necessità dell’autrice in questo caso non è quella di esplorare le contraddizioni di una società da lei stessa definita come arcaicamente patriarcale, posta nella forma di una constatazione che non viene neanche troppo connotata  o analizzata. Il trattamento delle immagini di alcuni significativi film che dall’era del muto fino agli anni più prossimi del suo esordio come cineasta- anche se il limite è sempre indicato dall’ultimo lavoro nel quale ha recitato il padre poco prima di morire- è contestualizzato in un crescendo,  dentro un discorso intimo e privato pronunciato in pubblico e a un pubblico, anche non armeno,  che non può cogliere i riferimenti testuali, ma accoglierne le suggestioni e le risonanze visive.

La partenza e la destinazione di questo minimalista Grand Tour  sono connesse dal progressivo svelamento dell’elaborazione di un lutto ancora in atto e che, probabilmente, in questo dialogare per intercessione del cinema (spazio privilegiato che Stepanyan condivideva con il padre in quanto culto e passione ma anche esperienza concreta di set per entrambi) trova l’interlocutore espanso di un tempo recuperato e restituito. È come se la regista, acquisita esplicitamente l’istanza di narratrice tra le pareti dei propri ricordi e la vastità del paesaggio armeno,  affidasse i frammenti e le sequenze trasmesse e introiettate dalle visioni familiari al respiro più ampio di una Histoire du cinéma rimasta esclusa rispetto alla centralità di quella occidentale, nonostante un rapporto più  interconnesso di quello che si possa immaginare; il viatico per un riverbero di sensibilità e prospettive risiede nella problematica contaminazione con il cinema sovietico,  vista la lunghissima occupazione armena  da parte dell’Unione Sovietica (terminata con il crollo e la dissoluzione di quest’ultima nel 1991), anche se non sono tanto  gli aspetti propagandistici e celebrativi di una cinematografica al servizio  di un’univoca narrazione ad essere (rac)colti. Stepanyan trova elementi di resistenza e di alterità, rispetto a un microcosmo piuttosto isolato di bigottismo culturale e strumentale dominio geopolitico, nelle opere del cineasta armeno più amato dalla sua famiglia, almeno nei mercoledì sera domestici  di proiezioni in tv:  Frounze Dovlatian, esponente di quella che potemmo definire il corrispettivo delle nouvelle vague internazionali (anch’essa esplosa, così come nel resto del mondo, all’inizio degli anni ’60) è il primo input per la giovane Tamara nella ricerca di un proprio registro espressivo, di un modo nuovo di mostrare le cose. Barev, yes em (Hello, it’s me,1966), emblematico titolo del film di Doylatian citato in varie sequenze da Stepanyan nonché primo film armeno ammesso al Festival di Cannes, è lo specchio della vita di una giovinezza, tra l’altro femminile, irrequieta tra l’entusiasmo vitalistico di un ballo jazz e i godardiani gesti e silenzi di una separazione e di un’incomunicabilità, di un’ insostenibile (e impossibile) leggerezza dell’essere. Ma il Cinema/Storia, corpus unico da scriversi in maiuscolo, in Armenia è percorso dalle macerie dei terremoti , dai resti del genocidio subito da parte dei turchi, dagli scampoli di un regime massacratore come quello dell’URSS. La tarkovskiana malinconia per l’espatrio e la nostalgia del ritorno – Tamara e i genitori si stabilirono in Libano, a Beirut, dove lei studiò cinema e rimase prima di un ulteriore trasferimento a Parigi mentre il resto della famiglia scelse come (ri) collocazione finale la terra madre – sono impresse in particolare nella parte conclusiva che coincide con l’apparizione del padre e anche, in un passaggio significativo di testimone e di testimonianza, nell’introduzione, tra le maglie di spezzoni estratti dalla finzione cinematografica, di autentici  home movies del proprio archivio personale,  virati da un senso post mortem, presenza sospesa di quello che è simultaneamente passato, presente e futuro.

Ed è qui che viene affermata l’impronta fantasmatica dichiarata fin dal titolo,  che non include però la messa in discussione e la radicalità teorica del film saggio. Stepanyan sta facendo i conti con la morte, con quella del padre e, certo, anche con la propria ( e, più sottilmente, con la precarietà di fare la cineasta in forme che svaniscono nel processo  di produzione e di fruizione delle immagini, con la loro conseguente possibilità di essere tramandate). L’attaccamento tanto radicale al paterno, seppur non discusso e di conseguenza discutibile, rientra nella superstite necessità di piangere i riferimenti primari del proprio immaginario. Un pianto che appartiene a tutti nel momento in cui si entra nella camera ardente del cineasta più straordinario e celebrato, quel Sergej Paradzanov, del quale bastano pochi frame di una delle sue opere visibilmente più strabilianti, Il colore del melograno (1969), per comprendere quali siano i segni della differenza e della separazione e di quanto questi passaggi rappresentino lo spartiacque tra l’impressione di essere morti e la volontà di sentirsi vivi.


Mes fantômes arméniens (My Armenian Phantoms) – Regia: Tamara Stepanyan; sceneggiatura: Jean-Christophe Ferrari, Tamara Stepanyan; montaggio: Olivier Ferrari; musiche: Cynthia Zaven; produzione: Alice Baldo, Tamara Stepanyan; origine: Francia/Armenia/Qatar, 2025; durata: 75 minuti.

 

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