Viaggio al Polo Sud di Luc Jacquet

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Prima biologo e successivamente documentarista francese nato nel 1967, Luc Jacquet deve la sua notorietà a un film che vinse l’Oscar nel 2006 intitolato in italiano La marcia dei pinguini (di cui parlò in toni estremamente laudativi Matteo Botrugno dalle colonne di questa rivista). Il documentario che ho visto solamente in quest’occasione è il racconto accorato ma a tratti anche divertente della vita davvero faticosa dei pinguini, segnatamente dei pinguini imperatori, gli unici esseri viventi che stabilmente abitano il continente antartico, il quarto continente in ordine di grandezza della Terra. In Antartide Jacquet è tornato varie altre volte sia, di nuovo per parlare di pinguini, in una sorta di sequel  intitolato in italiano La marcia dei pinguini – Il richiamo, risalente al 2017, sia trattando la figura del glaciologo Claude Lorius in un film che nell’originale francese s’intitola La glace et le ciel e che non è mai uscito in Italia.

Senza tener conto di cortometraggi e making ofJacquet torna dunque per la quarta volta in Antartide con questo Il viaggio al Polo Sud  e si ha la netta sensazione che il film dia, per così dire, per scontata non solo la conoscenza da parte dello spettatore degli altri suoi film ma anche il capitale simbolico accumulato nel corso degli anni come massimo esperto di documentari di ambientazione antartica, fin dalla presenza in primo piano dei pinguini all’interno del poster, una presenza intertestuale tutto sommato mendace, se si tiene conto che poi, all’interno lo spazio riservato ai pinguini è assai ridotto.

Insomma si assiste a una specie di via di mezzo fra film-saggio e memoir con un lento anzi rallentatissimo avvicinamento alla meta da parte del regista, costantemente presente sotto forma di voce over e spessissimo, in controluce, anche con la sua folta capigliatura bianca, che dà vita a un commento stavolta per nulla ironico, anzi a tratti ridondante e non privo di tonalità quasi poetico-mistiche che punteggiano alcuni passaggi chiave del lungo processo che conduce al raggiungimento della meta: la progressiva fine della vegetazione, l’approdo a Capo Horn, luogo mitico se mai ve ne furono, l’incontro con gli albatros con obbligatoria citazione di Baudelaire, le balenottere azzurre, riprese dell’acqua, sull’acqua, sott’acqua, le onde che si frangono, il reiterato desiderio di unyo mistica con gli elementi, gli avamposti dell’Antartide, sorta di ultima Thule prima del ghiaccio perenne, gli iceberg.

“Bienvenues dans le royaume du glace”. Con questo saluto solennemente pronunciato dal regista dopo più di un terzo del film approdiamo infine al settimo continente. E, seppur in misura limitata, l’approccio mistico si mescola anche a un lieve approccio improntato alla cosiddetta solastalgia (= stato di angoscia che affligge chi ha subito una tragedia ambientale provocata dall’intervento maldestro dell’uomo sulla natura, vedi Dizionario Treccani), che viene esplicitamente menzionata, anche se, diciamolo chiaramente, l’approccio ecologista ed ecocritico di Jacquet appare altamente rivedibile (al più tardi quando la nave fende la banchisa) e comunque nettamente subordinato all’attitudine religiosa di ri-sacralizzazione della vita, che muove il suo ennesimo viaggio nell’estremo sud del mondo. Un’attitudine che si accoppia a un’estrema estetizzazione delle immagini accentuata dal bianco e nero, soprattutto dal bianco, evidentemente, che da qui in avanti la fa da padrone.

L’afflato religioso-spirituale giunge al proprio coronamento con la sequenza finale in cui le immagini dell’Antartide sono commentate dalla colonna sonora del Nisi Dominus di Antonio Vivaldi.

In sala dal 13 giugno 2024


Voyage au Pôle Sud; regia, sceneggiatura: Luc Jacquet; fotografia: Christophe Graillot, Jérôme Bouvier, Sarah Del Ben; montaggio: Stéphane Malazaigue; produzione:  Arte France Cinéma, Paprika Films, Aster Production; origine: Francia 2023; durata: 82′; distribuzione: Movies Inspired

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