17° Festival del cinema spagnolo e latino americano (Roma, 15-19 maggio): Memorias de un cuerpo que arde di Antonella Sudasassi Furniss

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Proposto in anteprima mondiale nella sezione “Panorama” della Berlinale 2024 (dove si è aggiudicato, come miglior film, il sempre interessante “Premio del pubblico”), Memorias de un cuerpo que arde è presente in questi giorni in Italia, a Roma, per La Nueva Ola – Festival del Cinema Spagnolo e latino-americano. Al suo secondo lungometraggio, Antonella Sudasassi Furniss (di nazionalità costaricana) ci catapulta, dolcemente e con tempi lunghi, in sequenze (molto ben adoperato l’uso della macchina a mano) che provengono dalle “memorie di un sottosuolo” speciale. Ma forse più che da un sottosuolo, questi ricordi sullo schermo sono di fatto le stratificazioni-sovrapposizioni spazio-temporali di vita vissuta di alcune donne, oggi in età compresa tra i 60 e 70 anni. E tutto si fa archeologia visiva di e tra vissuti, e questo tipo di esplorazione non può che realizzarla proprio il cinema che, sin da quando è emerso, sa attraversare, per le sue esclusive competenze, le espansioni che ogni esistenza comporta, le estensioni che una vita di per sé è. “La vita e la realtà è storia e nient’altro che storia”, si leggeva in un libro abbastanza noto (soprattutto fino ad alcuni anni fa) di un filosofo italiano (che ripensava il grande Hegel) che un tempo, in Italia, riuscì per qualche stagione (pure assai complicata) a essere un punto di riferimento certo per la nostra cultura (e non solo nostra). Ma non s’intende tediare il lettore virando rotta e attenzione verso l’articolato interrogativo (di un altro grande filosofo, sempre tedesco anche in questo caso) “sull’utilità e il danno della storia per la vita”. Anche perché nel film, in verità, la storia universale “non si vede”, resta come sullo sfondo, come nascosta, in apparente letargo, e fa sentire ogni tanto, più che altro, le sue risonanze, rifrazioni.

Protagonista è la microstoria, quella delle narrazioni che documentano tratti di un’epoca (come ha provato a mostrare Carlo Ginzburg), quella dei fatti quotidiani che da soli esprimono e illustrano morfologicamente le avventure e disavventure delle genti. E così piacere, desiderio e aspirazione di quello che nemmeno si conosce o, meglio dire, paura e desiderio giocano a dadi e si riconoscono, l’una di fronte all’altro, attraverso l’intimità rivisitata di tre donne, Ana, Patricia e Mayela, vissute in un tempo opprimente in cui la sessualità era un tabù, e che poi hanno recuperato la loro femminilità “lontano da Dio e dai maschi” (poco disegnati sui metrò e molto reali e concreti). Ciò che in particolare ci è piaciuto di questo film sta nell’aver scelto di incarnare le loro voci come le loro storie in una donna sola, che appunto rivisita le vite delle altre “come in uno specchio”, come in un caleidoscopio fatto di rammenti intrecciati, privati e fantasie celate. Per il motivo che, in fondo, questo film mette in scena il farsi del cinema (e non solo perché inizia con scene dal suo stesso set, meta-cinema ovvero il mettersi a nudo del medium), nel senso della sua capacità di “ritornare al futuro”. Bellissime quelle immagini dove donna vuol dire, sempre e ancora di più, essere bambina, vergine, complice, sposa, madre, violentata, divorziata, libera. Tra sovraimpressioni e dissolvenze comuni si consuma la vita vissuta di queste (delle?) donne, e il cinema è l’unico maschile che si sa fare anche un po’ neutrale. Così facendo, può creare un terreno franco (ancora lo schermo?), perché spontaneo, dove poter far pronunciare, vedere, sentire, immaginare (…la manifestazione sensibile dell’idea…) “quello che le donne non dicono”. Flussi di coscienze confidenziali che diventano per un attimo collettive, non per i particolari, ma per le condizioni comuni in cui il privato delle donne si è trovato a prendere forma. E poco importa se ci troviamo nel nuovo mondo o in quello vecchio.

 

Queste storie particolari si fanno universali, e così la storia torna protagonista, e si ripete. Eppure, tra i chiaro-scuri la vita scorre e, a volte, trova le vie d’uscita che portano a un nuovo domani. Sopralluogo: sì, proprio così, ci è venuta in mente una parola che potrebbe stare al posto del titolo, forse meglio come sottotitolo. Questo film non è altro che un perlustrare, senza invasione, gli “interni” di queste figure: infatti le scene sono girate quasi tutte all’interno di un’abitazione. E come se queste donne, con le loro esistenze e le loro vicende, si confidassero e provassero stima al cospetto della macchina da presa. Si lasciano andare, anche perché sanno bene che solo così si può provare a stare bene. Altra strada non c’è. Esistono solo i cambiamenti, le trasformazioni, le metamorfosi: “il cielo in una stanza” infatti. “Tutto il resto è noia”, che il più delle volte vuol dire abbandono di sé. “Lo spazio doveva essere un protagonista in più, afferma la regista. C’è da dire che ho parlato tanto con queste donne durante la pandemia, quando vivevano, in effetti, un periodo di grande solitudine. Finiva, allora, che mi dicessero anche cose del tipo ‘si è rotta la lavatrice’, ‘non mi funziona quell’elettrodomestico’, etc. A partire da queste piccole realtà, mi sono figurata l’inizio del film, uno spazio che si converte in una clausura, ma che allo stesso tempo si presta all’immaginazione. È uno spazio che coincide visivamente con quello domestico al cui interno la donna è stata confinata per tanto tempo, allo stesso tempo carcere e porto dei desideri. È uno spazio che da cui parte l’immaginazione. In esso, le donne ricordano, vivono, rivivono le proprie memorie. Per elaborare questo concetto, la casa è divenuta, nel film, una protagonista che va trasformandosi”. Solo il cinema poteva essere “la casa”, “ieri, oggi e domani”.


Memorias de un cuerpo que arde – Regia: Antonella Sudasassi Furniss; sceneggiatura: Antonella Sudasassi Furniss; fotografia: Andrés Campos Sánchez; montaggio: Bernat Aragonés; musica: Juano Damiani;  interpreti: Sol Carballo (donna); Paulina Bernini (giovane donna); Juliana Filloy (ragazza); Liliana Biamonte (madre); Juan Luis Araya (marito); Gabriel Araya (padre); Leonardo Perucci (fidanzato); Cecilia García (nonna); produzione: Antonella Sudasassi Furniss per Substance Films (Costa Rica); co-produzione: Playlab Films (Barcellona, Spagna) origine: Costa Rica/Spagna, 2024; durata: 90 minuti.

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