Tiepide acque di primavera di Xiaogang Gu

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Segnaliamo, pur con poca tempestività, il prezioso recupero del film di chiusura dall’ultima “Semaine de la Critique” pre era covid, quella del 2019, Chun jiang shui nuan, la straordinaria opera di un debuttante cinese Xiaogang Gu che è uscita da qualche giorno anche nelle nostre sale grazie al benemerito lavoro di Movies Inspired. Cercate di andare a vederlo, perché merita, eccome!

Il titolo italiano del film, Tiepide acque di primavera, suggerisce al più un’atmosfera poetica che in parte, ma solo in parte, si riscontra in quest’opera che si svolge, dal punto di vista temporale, nell’arco di un anno, attraversando quindi tutte le stagioni e non soltanto la primavera (e il film, pur essendo a low budget, è stato girato nell’arco di due anni).

Più appropriato sembra invece il titolo internazionale inglese, Dwelling in the Fuchun Mountains, (cioè, tipo “Soggiornando nelle montagne di Fuchun”) che ripropone la traduzione – non è farina del nostro sacco – della principale opera del pittore Huang Gongwang (1269–1354), molto importante e celebre in Cina, un dipinto su rotolo, ormai diviso in due pezzi, di più di sei metri di lunghezza. E qui, invece, il riferimento all’aspetto pittorico e alla dimensione extra-large della narrazione ci sta tutto, non solo per le due ore e mezzo di durata ma anche perché si tratterebbe di una trilogia in progress di cui questa è soltanto la prima parte.   

Facendo qualche rapida ricerca geografica, per capire un po’ meglio il luogo dove si svolge l’azione – e vi garantisco non è un fatto secondario – troviamo la città (o cittadina considerando le dimensioni cinesi) di Fuyáng, di più di due milioni di abitanti, nel pieno della speculazione edilizia e di un accelerato sviluppo economico, una sorta di sobborgo di Hángzhōu, la capitale o almeno uno delle capitali tecnologiche della Cina, tanto per capirci la sede della Alibaba. E poi il fiume Fuchan, oltre alle belle montagne intorno, che fa da sfondo a questo fluviale (ed è la parola giusta) Chun jiang shui nuan.

Figlio, alla distanza, dell’umanesimo della New Wave taiwanese  e/o del grande cinema classico giapponese – tanti sono stati i nomi tirati in ballo dalla critica occidentale per inquadrare questo promettente autore, da Edward Yang e Hou Hsiao-hsien a Ozu Yasujirō o Mizoguchi Kenji – a noi sembra che Xiaogang Gu sia soprattutto un ottimo allievo del connazionale Jia Zhāngkē, proprio per il desiderio di scavare in profondità sulle attuali e abbastanza devastanti trasformazioni della Cina contemporanea e del suo ipercapitalismo dal volto disumano.

L’occasione per affondare la sciabola del regista (classe 1988), nato proprio a Fuyáng, sulla propria città e la sua deteriore metamorfosi, è il racconto a partire dal microcosmo della famiglia Yu, riunita per celebrare i settant’anni della matriarca, la madre di quattro fratelli nel ristorante del figlio maggiore. Durante la festa descritta con una estrema dovizia di particolari e lunghe sequenze, la donna si sente male e viene ricoverata d’urgenza in ospedale. I medici sentenziano che purtroppo non sarà più indipendente e dunque qualcuno si dovrà occupare di accudirla. Ma chi?

A questo punto, dopo l’incipit, parte la descrizione dei vari fratelli, il maggiore lo abbiamo detto è il più ricco, il proprietario di ristorante, con una moglie terribile e autoritaria, e una figlia invece che vuole decidere con la propria testa, rifiuta il tradizionale matrimonio combinato per interesse e sposa un insegnante di inglese non certo ricco (ma forse farà i soldi con un romanzo poliziesco che alla fine riuscirà a veder concluso); il secondo fratello è, invece, un pescatore che si trova sempre in difficoltà economica; il terzo, pur essendo il più attaccato alla madre (e di cui paradossalmente si occuperà di più) vive di prestiti non restituiti e di truffe, pesantemente indebitato e continuamente in fuga dagli strozzini e dalla polizia, ha in più un figlio portatore di handicap; il minore, infine, quasi ancora un ragazzino, non viene preso mai veramente sul serio dal resto della famiglia, anche se a tratti cerca di conquistarsi un proprio piccolo spazio personale.

Una saga ed un’epopea familiare in piena regola, dunque, descritta in lunghi piani-sequenza e molte belle digressioni spazio-temporali, con al centro il problema della sopravvivenza in una società oscura, implacabile e malavitosa, che non ha pietà dei più deboli o dei sentimenti mentre la speranza in un futuro migliore è affidata dal regista alla figura della figlia del fratello maggiore che vuole rompere con l’oppressione della tradizione, conquistando la sua indipendenza.

La macchina da presa sempre usata con grande virtuosismo e lo sguardo di Xiaogang Gu, morale più che moralista, sono implacabili e pedinano un ambiente in perenne trasformazione – dall’edilizia ai costumi – che non lascia presagire nulla di buono.

Ci auguriamo, quindi, dopo esserci appagati con questo Chun jiang shui nuan,  di vedere presto il resto di una trilogia che promette di restare e non solo nella storia del cinema cinese.

In sala dal 28 dicembre 2021


Chun jiang shui nuan /Tiepide acque di primavera  Regia e sceneggiatura: Xiaogang Gu;  fotografia: Deng Xu, Yu Ninghui; montaggio: Xinzhu Liu; musica: Dou Wei; interpreti: Zhenyang Dong, Hongjun Du, Wei Mu, Luqi Peng, Youfa Qian, Zhangjian Sun, Zhangwei Sun, Zikang Sun, Fengjuan Wang, Guoying Zhang, Lulu Zhang, Renliang Zhang, Yi Zhuang; produzione: Beijing Qu Jing Pictures;  origine: Cina, 2019; durata: 150’; distribuzione: Movies Inspired.

 

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