Lettera a Franco di Alejandro Amenábar

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Se gli ordinavo di occupare una collina da lì non lo spostava più nessuno. Se gli consegniamo la Spagna non la mollerà finché sarà morto

Causa ed effetto dicono che facciano la Storia, poi però arriva un meteorite, di materia celeste o grigia, e la Storia cambia così, in uno schiocco. Semplice, complessa, non è facile dirsi, la Storia alla fine è fatta da persone, quelle forti, ma soprattutto quelle deboli: uomini comuni, rettori universitari, futuri dittatori. Lettera a Franco, per la regia di Alejandro Amenábar, è un film storico – rassicurante e classico come solo i film storici possono essere -, affronta la nascita del franchismo partendo dagli uomini, loro, coloro che non avevano capito ciò a cui andavano incontro o capito, lo avevano fin troppo. Sempre ad attendere un cambio di bandiera, fisica o ideale che sia.

Sono due uomini. Uno è il rettore dell’università di Salamanca, l’altro è un generale in stanza in Marocco. Tra loro una rivoluzione, uno che la subisce e l’altro che la porta. Entrambi sullo stesso fronte, o forse no. Miguel de Unamuno (Karra Elejade) è lo scrittore più importante di Spagna, ha amato la Repubblica anche quando questa l’avrebbe tradito, e ora vede nella rivoluzione franchista la possibilità di tornare a quella civiltà cristiana d’occidente da lui ideata. I colleghi lo accusano di cecità, lui guarda la bandiera tricolore repubblicana e sostiene che finché quella sarà al suo posto lui non udirà spari di soldati, piuttosto di bracconieri. E intanto fa origami alle luci del primo mattino. E intanto i suoi amici iniziano a sparire.

Dall’altra parte c’è invece lui, Paco (Santi Prego). Paco è un uomo d’armi e uomo debole a capo di una rivoluzione che non ha appoggi e che Hitler vuole guidata da qualcuno di forte perché il suo di appoggio venga dato. La Giunta vuole che Pachito si faccia avanti, ma lui nega. Si corre veloce verso Madrid, poi si temporeggia andando all’Alcazar perché questa non sarà una guerra lampo e «per ripulire tutto ci vorranno anni». E non solo anni, ci vorrà anche un uomo, un nuovo Cid Campedor, o forse una fattispecie, come «Franchino il volpino». Colui che si prenderà la Spagna e non la lascerà fino alla morte. Ormai è tempo che la bandiera cambi: il tricolore cade, la bandiera monarchica bicolore sventola.

Alejandro Amenábar ci riporta alla nascita della dittatura meno famosa e meno raccontata dal cinema. Nonché una delle più longeve. Lo fa con la classicità del film storico, non osando e non rompendo quella sicurezza che la Storia raccontata sa dare allo spettatore, e segue questa via affidandosi alla ricostruzione della vita di due personaggi. È la loro vita, quella personale, che s’intreccia a quella collettiva, la Storia con la S maiuscola. Francisco Franco sta per rivelarsi al mondo, Miguel de Unamuno l’ha già fatto ed è prossimo alla fine.

Due personaggi che Santi Prego e Karra Elejade sanno ridare, con un’ottima interpretazione, nel lato più interessante, quello delle debolezze: il primo nella sua incapacità di esporsi direttamente, il secondo nel suo nascondersi dietro parole a cui manca qualsivoglia azione a rinforzo. Aspettano solo il punto di non ritorno, quello oltre il quale le parole un peso iniziano ad assumerlo e le mani tese, che tengano una pistola, una penna o stringano un guanto di salvezza, ne acquistano altrettanto. Tra loro un uomo forte, el glorioso mutilato, José Millán-Astray, colui che in ogni guerra ha perso un pezzo e che sa quando e quali parole spendere, comprese quelle che devono incoronare un altro di uomo, Paco, come lui che è bakara: la provvidenza.

Lettera a Franco è un film storico che cerca di giocare sulle persone più che i personaggi. Il racconto è scorrevole, non si arena, è capace di saltare tra le due correnti della diegesi e quello che ne esce è un buon prodotto che agli amanti di un film calmo e quel giusto impegnativo piacerà. Ormai dopotutto è passato quasi un secolo e ciò che una volta era grezzo racconto per bocca di uomini è divenuto epica e nell’epica le persone agiscono tra nemici e amici, tra buoni e cattivi. Buona pellicola è allora quella che non pende troppo da un lato, cerca di spiegare cosa smosse una nazione, le colpe di fascisti e rossi e le difficoltà di coloro che non distinguevano il mondo in nero e bianco, ma cercavano di approfondire la densità del grigio. Si arriva così all’immagine finale…

…su una tela Francisco Franco, il Caudillo, a groppa di un cavallo imbizzarrito eppure domato, la spada scintillante e le medaglie luccicanti, prende vita dalla mano di un pittore. è ciò che si è voluto tramandare ai posteri. A noi. Ma davanti alla tela ecco ciò che è in realtà stato: giusto un uomo, in sella a un cavallo di legno, gli stivali nelle staffe inutili, la spada senza filo in mano e il petto gonfio in fuori. Si agita, si dimena, ma l’animale non si muove. È giusto un manichino.

Il generale Franco? Oh, un poveretto


Dal 26 maggio al cinema

Lettera a Francoregia: Alejandro Amenábar; sceneggiatura: Alejandro Amenábar, Alejandro Hernández; fotografia: Alex Catalán; montaggio: Carolina Martínez Urbina; musica: Alejandro Amenábar; scenografia: Juan Pedro De Gaspar; costumi: Sonia Grande; interpreti: Karra Elejalde, Eduard Fernández, Santi Prego, Nathalie Poza, Tito Valverde, Luis Bermejo, Patricia López Arnaiz, Inma Cuevas, Carlos Serrano-Clark, Luis Zahera, Ainhoa Santamaría; casa di produzione: Mod Producciones, Movistar+, Himenóptero, K&S Films, MDLG-A.I.E., Telefónica Audiovisual Digital; origine: Spagna, Argentina, 2019; durata: 107’; distribuzione: Movies Inspired.

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