A Thousand and One di A.V. Rockwell

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Nel solco di una convenzione abbastanza consolidata all’interno del cinema americano che racconta la complessa situazione socio-politica ed esistenziale dei ghetti in cui vivono gli afroamericani tra emarginazione e riscatto, A Thousand and One cerca di lasciare una propria traccia: opera prima scritta e diretta da A.V. Rockwell possiede la duplice anima di un melodramma di abbandoni  e ricongiungimenti  – una donna appena uscita dal carcere che ritrova il proprio figlio abbandonato in un orfanotrofio e lo “rapisce”, sottraendolo allo Stato che ne aveva la tutela – e della ricostruzione  del traumatico e dispersivo  processo di gentrificazione avvenuto nella New York del fermento ante e della diaspora post 11 settembre (evento che rimane curiosamente fuori campo ). Si procede dunque per i totali di una metropoli scandita dalle trasformazioni geo-architettoniche – politiche fino alle piaghe più estreme del suo cementato volto di strade e palazzi, e le focali strette  sulle piccole storie di ordinario e (in)visibile abuso, e di straordinaria e (im)possibile rivalsa. La fuga della volitiva Inez e del piccolo, introverso  Terry, anzi il loro falso movimento da una parte all’altra del quartiere,  rappresenta anche l’altrove di un ‘identità a cui il contro campo brulicante di quell’enorme paesaggio urbano sembrava averli condannati fine pena mai: lei costretta a sopravvivere con lavori precari espiando lo stigma dell’ex carcerata, lui perso nel girovagare a vuoto intorno alla vie di una casa famiglia , in attesa di superare l’età ritenuta ancora opportuna per l’adottabilità o l’affidamento. Inez e Terry ci provano invece a diventare una famiglia , integrando anche una figura paterna  (Lucky, un ex ladro tossicomane amante di Inez, che come lei troverà  in quel inaspettato circolo di conviventi  la sua seconda possibilità), al di là dei vincoli biologici o dei procedimenti  burocratici e legali. Tutte questioni queste ultime che riemergeranno violentemente nella concitata parte finale e creeranno uno smottamento, restando  nell’ambito di similitudini geologiche, sul terreno di quelle stabilite e ridefinite radici familiari. Un passaggio rafforzato, se non si fosse compresa la metafora, dall’ immagine dell’appartamento in cui i personaggi abitano e  che a un certo punto comincia letteralmente ad andare a pezzi, con i muri crepati e i tubi esplosi  che allagano il bagno.

Forse è proprio questo il limite più evidente dell’esordiente sceneggiatrice-regista, far sentire, a tratti forzatamente, una struttura narrativa che vuole tenere insieme, rasentando la poca plausibilità, la linea del tempo e quella della verosimiglianza (Terry continua a girare indisturbato con dei documenti falsi e in un posto sempre più paranoicamente occupato dalla polizia, almeno fino a quando la sua insegnante del liceo non gli offre un lavoro e gli chiede il numero di previdenza sociale…) e che non riscatta però le incongruenze su un piano figurativo o simbolico. Siamo di fronte a un realismo monocorde che solo verso la conclusione cerca uno scarto nel ribaltare ancora, almeno drammaturgicamente, le identità precarie di Inez e Terry. Ma non si va molto oltre l’impatto di un colpo di scena letteralmente “telefonato” per poter sbloccare la situazione di staticità e indecisione dentro la quale si trova incastrato Terry, anche nella tensione  di trovare le proprie parole come strumento per  autodeterminarsi e porre delle domande a quella madre ostinata e reticente.

Sembra di assistere ad una variazione più prosaica e più pedante di Moonlight (2016) di Barry Jenkins,  sopravvalutato black movie che invece si affidava alla forza evocativa e immaginifica delle percezioni sensoriali nel tempo e nello spazio di un bambino-adolescente-giovane adulto alle prese con un’esistenza di emarginazione e violenza  in una disperata Miami di droga e degrado; un rischio non tradotto però in una compiuta, incisiva resa espressiva ma rimasto indeciso tra dimensione onirica e smorzato iperrealismo.

A Thousand and One è dichiaratamente meno ambizioso su un piano formale, ma riprende il personaggio del padre putativo che riscatta la propria ambivalenza di segno e ruolo:  in Moonlight era addirittura uno spacciatore di crack, che,  seppur nella breve durata della sua presenza,  riusciva a trasmettere al piccolo protagonista Chiron protezione, fiducia e calore; e anche qui il personaggio di Lucky , scritto da Rockwell con evidente ispirazione/debito nei confronti del film di Jenkins,  dopo l’iniziale resistenza, acquista il peso specifico di un punto di riferimento post patriarcale, che non ha più certezze e risposte da suggerire, ma può restituire  la pienezza di un ascolto e di un abbraccio ( la sequenza più autentica è propria quella del dialogo tra i due protagonisti sul campo di pallacanestro a cielo aperto, durante la quale l’uomo convince il ragazzo ad accettare di frequentare una scuola migliore, senza imposizioni o minacce ,ma inducendolo a porsi delle domande).

C’è dunque un intento pedagogico che, fortunatamente, non si fa mai moralistico, in quanto non c’è giudizio per le azioni compiute in particolare da Inez, interpretata dalla cantante, attrice e ballerina Teyana Taylor con un bel piglio combattivo dentro una piuttosto limitata gamma espressiva, in un rigido e ossessivo attaccamento a portare avanti la vita che ha costruito per sé e il figlio , al di là di qualsiasi fattore, perfino quello determinante della verità.

Siamo lontani dagli affondi lucidi e sarcastici e dalla militanza politica in cadenza di ballad rap del miglior Spike Lee, in particolare dello storico Lola Darling (1986): quello sguardo interno ed esterno ad una comunità  è sostituito da un pur robusta rappresentazione mimetica di  quel microcosmo cosi impermeabile e cosi violabile, che si lascia vedere senza permettere di farsi toccare nell’indignazione di una coscienza e nell’intensità di un sentimento . È come se il pudore e la cautela di una regia della quale si avverte sottotraccia la magmatica urgenza espressiva,  raffreddassero la troppa carne che si è voluta mettere al fuoco,  senza dare conto fino in fondo dell’implicazione tra la parte privata e quella comunitaria ( anche l’eccessivo individualismo di Inez non viene scandagliato nella prospettiva di un modo a parte che, minacciato, perde le fila di un proprio marciare insieme:  un”uno’- One– ormai distinto dalle “centinaia”- Thousand ).

Rimane l’ immagine emozionante di una fermata d’autobus terminale, che conclude la corsa di una madre e di un figlio, e il loro fantasmatico mélo incarnato  nelle rispettive ferite narcisistiche ancora non rimarginate. Alla fine si apre l’inizio di un nuovo imprevedibile percorso e chissà che non sia quello il film che avremmo voluto vedere…

In sala dal 29 giugno


A Thousand and One – Regia e sceneggiatura: A.V. Rockwell; fotografia: Eric K.Yue; montaggio: Sabine Hoffman, Kristan Sprague; interpreti: Teyana Taylor, Will Catlett, Josiah Cross, Aven Courtney, Aaron Kingsley Adetola; produzione: Sight Unseen,Hillman Grad Productions, Makeready; origine: USA, 2023; durata: 116′; distribuzione: Lucky Red.

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