Blitz di Steve McQueen

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L’immagine di un prato di margherite “strecciata” come nella riproduzione di un supporto video consumato dal tempo. Evocazione subliminale di una serenità perduta nell’ inferno di bombe, crolli e incendi dentro la Londra devastata fin nelle fondamenta dai raid aerei nazisti del 1940 . Lascia il segno l’incipit di Blitz, l’ultimo film di Steve McQueen, che fa il palio con il precedente Occupied City nell’ esplorazione degli effetti devastanti della guerra all’ interno di uno spazio urbano.

E con una scelta perfettamente speculare, McQueen passa da un lavoro sul rapporto forma/racconto debitore della sua esperienza di videoartista e cineasta sperimentale (la ridefinizione audiovisiva dell’Amsterdam contemporanea sulla voce off di un testo che rievoca gli orrori degli anni dell’ occupazione) a una narrazione più solida e strutturata. Non più l’ esperienza rappresentata come processo di composizione e scomposizione sensoriale, ma in quanto sguardo di un soggetto inquadrato e collocato nelle convenzioni di una storia. Siamo portati così a seguire la micro odissea del piccolo George, il taciturno figlio di una coppia meticcia, motivo per il quale subisce discriminazioni e stigmatizzazioni nel cupo clima bellico, che, fatto evacuare dalla madre in una delle colonie situate nella campagna limitrofa per proteggere almeno i bambini dai bombardamenti, salta dal treno in corsa e cerca di ritrovare la strada verso casa.

Smarrito ma determinato, il ragazzino entra in contatto con una City quasi rasa al suolo dai bombardamenti, dove le insidie e i disagi degli abitanti dei bassifondi escono allo scoperto tra le macerie e insidiano i più deboli e i più indifesi. Può capitare dunque di imbattersi in una banda di ladruncoli e sfruttatori che sembrano uscita da un racconto di Dickens, anche se non c’ è nessuna forma di riscatto o di picaresca ironia; resiste solo un basico istinto di sopravvivenza e uno stato di miseria talmente incattivito e imbruttito che li porta a saccheggiare gli eleganti e ingioiellati cadaveri mummificati dentro una sala da ballo, fino a poco prima kermesse di chiacchiericcio, danze e performance musicali, colpita dagli attacchi dei tedeschi.

È solo uno degli scenari di distruzione che George attraversa in una corsa che deve essere più veloce delle fiamme spaventose e implacabili nel loro procedere ad inghiottire ogni quartiere, piazza e casa. Sequenze costruite con un senso del ritmo e della spettacolarità dal respiro grandioso e adrenalinico, come le panoramiche di una Londra in rovina e le soggettive delle bombe che cascano a pioggia, nel solco di una maniera totalizzante e vertiginosa di mettere in scena il meccanismo più che mai a orologeria della guerra ( dal kubrickiano Dottor Stranamore al Dunkirk di Nolan). Nel magma materico e fumante di una tale visione, riflesso negli occhi sgomenti di George, McQueen innerva il corpus ricorrente del suo cinema, ovvero l’elemento melodrammatico costituito dall’escamotage piuttosto ovvio dei flashback collegati alle vicende parallele di George e della madre (la quale, una volta avvertita della sparizione, comincia con determinazione e strazio a cercarlo).

Ma questa storia d’amore filiale e materno, l’agognato ricongiungimento nonostante le circostanze e le scelte (l’allontanamento di George è motivato da un reale pericolo) è troppo spiegata e raccontata, pur se con un pudore anti retorico e anti sentimentalista impresso sui volti e dentro i silenzi vibranti del giovanissimo Elliot Heffernan e della volitiva Saoirse Ronan. Laddove riesce a sospendere la funzionale e dimostrativa estrinsecazione degli eventi presenti e passati, e sondare il sentimento di un legame spezzato da fattori contingenti McQueen ritrova comunque la sua ispirazione migliore. Se in Shame era una versione prosciugata, minimalista, eppure di intollerabile intensità di un brano iconico come New York, New York eseguito da una quanto mai dolente Carey Mulligan a portare in scena l’enorme fuori campo contenuto in una lacrima di Michael Fassbender (un fratello e una sorella uniti a filo doppio da una tormentata indole autodistruttiva e da una comune e condivisa ferita narcisistica), in Blitz è il canto soave di un trio vocale femminile che canta di una ritrovata felicità nei sotterranei accampati della metropolitana a mantenere oniricamente e utopisticamente in vita la possibilità di un rincontro.

Una dolcezza e un calore che scaldano e non carbonizzano, alimentano e non annientano, e che si dipanano per un’estetica filmica fatta di colori accesi e corposi, con una fotografia prevalentemente notturna dalla quale si stagliano le figure umane stremate dalla ricerca permanente di un rifugio e dall’ angoscia costante di una fine. Una prospettiva comunque luminosa su un popolo che ha resistito anche nella faticosa ridefinizione di un senso di comunità da cui i cittadini anglo-africani, ci ricorda politicamente McQueen, venivano esclusi, marginalizzati, abusati  (basti vedere il destino del padre di George). Un’ istanza civile quest’ ultima tradotta in modalità un po’ scontate, come il personaggio del buon soldato nero e temporaneo padre putativo che aiuta fino a un certo punto lo sperduto protagonista (didascalicamente corrispondente alla spregevolezza di un po’ tutti i bianchi che incontra). La capacità straordinaria di creare momenti sonori e visivi che avvolgono e coinvolgono non risolve completamente lo schematismo narrativo e le riflessione etica si blocca sulla soglia di una contemplazione desolante, capace però anche di intrattenere, della catastrofe.

Più vicino allo spielberghiano L’impero del sole nel tramutare la sensazione di meraviglia e scoperta in un doloroso romanzi di formazione, George non matura un orrore così profondo da spingerlo sull’abisso del suicidio come l’ Edmund del rosselliniano Germania anno zero. Le macerie rimangono al di fuori o intorno, non sono introiettare al punto da disarticolarne la costruzione della sua soggettività e spingerlo a lanciarsi, letteralmente, nel vuoto. Il restare sempre in movimento, passando da un inconveniente all’ altro, equivale a restare vivi senza porsi domande laceranti su quello che si sta patendo e subendo. C’ è solo un momento che riesce a scalfire di commozione la corazza con la quale George ha ammantato il proprio precario incedere di bambino di nove anni, e ha ancora a che fare con l’intensità dei legami affettivi:Il ritrovamento del cadavere dell’adorato nonno materno, morto tra i resti della loro casa.

E il fatto che sia interpretato da Paul Weller, che non a caso trasmette al nipote la gioia e la passione per il canto e il pianoforte, permette di stabilire un aggancio con il titolo di una canzone della rockstar inglese, riassunto evocativo del frammento più poetico: un prato di margherite, una voce familiare, un desiderio da esprimere. You do something beautiful.

Presentato in anteprima alla Festa del Cinema di Roma 2024 ( sezione Grand Public) e poi dal 1 novembre in cinema selezionati .
Su Apple TV+ dal 22 novembre 2024 


Blitz; –  Regia e sceneggiatura: Steve McQueen; fotografia: Yorick Le Saux; montaggio: Peter Sciberras; musiche: Hans Zimmer; interpreti: Elliott Heffernan, Saoirse Ronan, Harris Dickinson, Paul Weller, Benjamine Clementine, Stephen Graham, Katy Burke, Erin Kellyman; produzione: Apple Studios, Regency Enterprises, Working Title Filma; origine: Stati Uniti/ Gran Bretagna, 2024; durata: 114 minuti; distribuzione: Apple TV+ .

 

 

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