Ha tutto il sapore del cinema indie americano, questo Chiamami papà, romanzo di Marco Palagi edito da Giovane Holden edizioni nel 2020.
Ha il sapore di un cinema piccolo, ma vitale, che affollava (prima del Covid) le vetrine di un Festival come il Sundance di Robert Redford, o come il Tribeca di De Niro e che poi arrivava sui nostri schermi quasi in sordina, per le programmazioni d’essay di chi era alla ricerca di un cinema d’autore senza stravizi o eccessi di intellettualizzazione.
Un cinema multietnico, a dirla tutta, che parla italoamericano, ma che strizza l’occhio, con inesausta nostalgia, alle vecchie commedie romantiche anni ’80 e ’90, discendenti, a loro volta, dalla grande tradizione del cinema di un Lubitsch che ancora ci indica la strada di una perfezione irraggiungibile.
Un cinema di affabulazione, insomma, che cerca, nelle pieghe della finzione, il rapporto con una realtà sfuggente che è sempre più incredibile della fantasia che respira (e ci fa respirare) nei sogni di celluloide. Soprattutto un cinema popolato di personaggi che ci suonano realistici perché l’autore li va a pescare a un passo dall’improbabile, proprio prima dell’angolo col surreale, in quello spazio intermedio in cui la realtà non è ancora più incredibile della fantasia.
In fondo, Lorenzo nasce qui, in questo coacervo di suggestioni, in questo arcano crocevia di incastri romanzeschi: un becchino che deve volare fino a New York per trovare l’amore e che, poi, deve immergersi nella massima povertà del continente africano per scoprirsi dentro la voglia vera di essere padre.
È attraverso i suoi occhi che il lettore entra in un mondo, quello della fluidità incomprensibile del nuovo millennio, quasi in punta di piedi. È lui il centro di focalizzazione della narrazione, anche se, a tratti, attraverso capitoli che eleggono a voci narranti la moglie (raramente) e la figlia appena nata (poco di più), il romanzo sembrerebbe tentato dalla possibilità se non altro di mimare la struttura di una narrazione polifonica. In realtà, se di contrappunto vogliamo proprio parlare, analizzando le pagine del libro, bisognerebbe riferirsi a un “contrappunto didattico” alla Bach, in cui lo strumento monodico, vero e unico protagonista del brano, lascia vibrare nell’aria l’eco del tema principale, fingendo un’altra voce. Una polifonia simulata, insomma, che si coagula tutta intorno al tema assai complesso della paternità vista come punto di approdo di un percorso di autoconoscenza interiore che si raggiunge solo attraverso un costante confronto con l’alterità. Per questo il viaggio, sia pure all’interno della società globalizzata che ha reso estremamente facile (e spesso meramente illusorio) ogni spostamento geografico, assume un peso preponderante all’interno della narrazione. Perché esso segna il bisogno di uno sperdersi per riconoscersi, perché rappresenta l’unico modo per infrangere le nostre corazze di abitudine per permettere quell’apertura che è anche “resa” all’altro, ai suoi bisogni e al riconoscimento della sostanziale interdipendenza che ci lega e affratella tutti.
Marco Palagi è assai abile, grazie a una prosa leggera e intinta d’ironia rasserenata, a renderci le tappe salienti di un percorso interiore che ci viene facile immaginare sottilmente autobiografico (ma di quell’autobiografia di chi si è perso davvero un poco nel mondo e, per questo, ha smesso l’auto-contemplazione che affligge tanti blogger contemporanei e ha scoperto negli altri un po’ di sé). Sicché il racconto corre senza inciampi, trascinando un lettore partecipe che un po’ si diverte e un po’ si commuove di fronte a una storia esemplare che non diventa mai apologo, ma lascia vibrare corde vere che risuonano ancora, a lettura conclusa, come un eco che ci fa piacere ci accompagni ancora un poco.
Autore: Marco Palagi
Titolo: Chiamami papà
Editore: Giovane Holden edizioni
Collana: Battitore Libero
Dati: 272 pagine, brossurato
Anno: 2020
Prezzo: 15,00 €, (anche in eBook)
Isbn: 978-88-3292-768-9
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