È un film ambiziosissimo ma sostanzialmente irrisolto quello girato dal regista trentasettenne boliviano Kiro Russo che aveva fatto parlare di sé cinque anni fa, quando a molti festival fra cui Locarno (dove aveva ottenuto una menzione speciale) aveva presentato il suo film d’esordio dal titolo spagnolo Viejo calavera, ossia Vecchio teschio, a oggi il film boliviano più celebre del nuovo millennio.
Non che il cinema boliviano goda di grande notorietà, ma tant’è. Quello presentato nella sezione “Orizzonti” di Venezia è un film girato in 16 millimetri che non ha di fatto saputo scegliere se essere un film di finzione o un film documentario. Fin qui nulla di male, per carità, ma quando, di fatto, le due parti sono quasi del tutto sconnesse l’una dall’altra, viene da chiedersi perché il regista non sia stato più deciso nello scegliere una modalità piuttosto che un’altra, perché non abbia fatto due film.
Inutile dire che la risposta più spontanea è: aveva poco materiale, aveva poche idee. Confessiamo fin da adesso che la parte documentaria è quella che ci è parsa più convincente, sia dal punto di vista del contenuto che da quello formale. Il contenuto è rappresentato da La Paz, la capitale più in alto al mondo (a 3640 metri sul livello del mare) che non è esattamente frequente vedere al cinema. Chi scrive non l’aveva vista mai. La macchina da presa, nelle primissime scene, vi si avvicina con un lentissimo carrello in avanti, al termine del quale ci troviamo di fronte a uno scenario non dissimile da tante altre megalopoli del cosiddetto terzo mondo con il valore aggiunto di una posizione davvero unica: un cantiere a cielo aperto, un alveare, un assemblaggio di merci e di individui sospeso fra modernità e atavismo. Scopriamo che l’avvicinamento della macchina da presa a La Paz corrisponde di fatto all’avvicinamento del protagonista che ha preso il lavoro e dopo una Wanderung di sette giorni, come un eroe fiabesco, è approdato alla capitale in cerca di un’occupazione, che trova anche, ad un mercato.
Ma il prezzo da pagare si rivela costosissimo, poiché Elder, così si chiama il personaggio, non appena mette piede in città si ammala di una non meglio precisata malattia di tipo polmonare. È la città che lo fa ammalare? Che fa ammalare lui che viene da una zona rurale ed è evidentemente poco abituato al caos della metropoli e all’ammasso di genti? Forse. Non si fa in tempo, se si volesse, ad appassionarsi alle vicende di Elder che la macchina da presa si trasferisce in una zona boschiva forse non troppo distante dalla città e comincia seguire le tracce di un personaggio nomade che erra mormorando numeri che sembrano statistiche esse stesse legate alla frenesia della città. Costui è Max, un individuo decisamente originale che, grazie alla mediazione di un personaggio femminile che risponde al nome di Mamá Pancha, sarà l’unico a poter rimettere in sesto Elder ricorrendo alle proprie capacità magico-terapeutiche, visto che la medicina tradizionale non sa davvero che pesci pigliare per guarire Elder.
Quest’esile vicenda che descrive con tutta evidenza un paese sospeso fra credenze tribali e modernità è continuamente interrotta dallo sguardo antropologico della macchina da presa, assai più interessata, anche nella composizione delle inquadrature alla moltitudine che popola le sordide strade della città, alle condizioni climatiche estreme (bellissima la scena di un nubifragio) e tutta un’altra serie di fenomeni urbani che, nella parte finale, non possono per l’abbondanza di tecniche avanguardistiche non ricordare i grandi classici di Ruttmann o Vertov. Nell’insieme, come si diceva, un film interessante ma sostanzialmente irrisolto.
Cast & Credits
El Gran Movimiento; Regia: Kiro Russo; sceneggiatura: Kiro Russo; fotografia: Pablo Paniagua; montaggio: Felipe Gálvez Haberle, Pablo Paniagua, Kiro Russo; interpreti : Julio Cesar Ticona (Elder), Max Bautista Uchasara (Max), Francisa Arce de Aro (Mamá Pancha); produzione: Socavón, Altamar Films, Doha Film Institute, Sovereign Films; origine: 2021 Bolivia, Francia, Qatar, Svizzera; durata: 85′.