Festival di Rotterdam: Geology of separation di Mauro Mazzocchi e Yosr Gasmi

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Ha un titolo ambizioso e suggestivo Geology of separation (Geologia della separazione), passato qualche giorno fa in Concorso al Festival del cinema di Rotterdam (25 gennaio – 5 febbraio), documentario attraversato da detours di archetipico e germinale lirismo, diretto dal doppio sguardo italo-tunisino dei registi Mauro Mazzocchi e Yosr Gasmi. La questione che affronta questa intima ed insieme espansa sonata in più movimenti, è quella dei flussi migratori rappresentati nello specifico umano e disumano dello sradicamento dalla propria terra d’origine  e dell’alienazione dei non luoghi a cui opporre la resistenza di una memoria identitaria. Potremmo dire che dal punto di vista narrativo c’è la scelta di seguire gli spostamenti  di Abderhaman e Laly, due emigranti, uno libanese e l’altro senegalese, che attraversano il confine tra Italia e Francia passando per un centro d’accoglienza in Valtellina, passando attraverso lo sfruttamento di lavori malpagati nei campi del nord Italia; ma si va ben oltre il pur puntuale e aderente pedinamento: non viene detto molto dello loro biografie proprio perché vengono inscritte dentro quella che  potremmo definire, con uno spostamento semantico sul  titolo, una genealogia di gentes senza più padri e patrie.

E, abbandonando strade già battute  in tutte le implicazioni etiche e estetiche che comporta un soggetto di questa portata e trasversalità, i registi ritrovano nella centralità del linguaggio cinematografico il senso per dare corpo e forma ad uno scarto tra realtà e immaginario: c’è infatti l’alternanza tra il posizionamento concreto, preciso, quasi ineluttabile della mdp fin dalla staticità dei piani sequenza iniziali all’interno del centro d’accoglienza e il progressivo crescendo in trasfigurazione del montuoso paesaggio innevato circostante,  amplificato nel suo dinamismo dalla musica e dalle parole (con un rimando all’immagine senza confini di Pangea, il nome con cui è indicato il supercontinente che, secondo i geologi, includeva in un’ originaria unità tutte le terre del mondo emerso). Abderhaman e Laly possono uscire in questo modo dalla  prescritta condizione di migranti schiacciati dalle strettoie percettive di un occidente che applica un colonialismo al contrario e riacquistare il valore arcaico e sacro di sciamani e rabdomanti di un altrove spaziale e temporale. Come un grande rimosso della falsa coscienza di chi è nato immerso nel surplus del capitalismo estrattivo, le panoramiche a macchia sulle cime imbiancate rimbombano nell’eco visivo di luccicanti piste da sci addomesticate al culto del turismo.

Uno degli aspetti più interessanti, e ipnotizzanti, dell’oscillamento tra osservazione e contemplazione sta proprio nel soffermarsi su una situazione di stasi, sull’ impossibilità di continuare a immaginarsi in un continuum esistenziale di passato, presente e futuro a causa delle maglie della burocrazia, dello sfruttamento, dei confini (si parla molto di pratiche, documenti, regole);  in tal senso c’è una volontà, anzi una tensione precisa nel voler restituire ai due protagonisti,  e alle generazioni precedenti da cui provengono e che in loro riverberano e si incarnano,  la possibilità di una visione che non si esaurisce solo nel qui ed ora di una sopravvivenza di mortificazioni e di privazioni. Nelle parti più concentrate sulla descrizione di una quotidianità scandita dalle parole derogatorie delle istituzioni e delle relative nemesi del caporalato contadino, lo sguardo dello spettatore è spiazzato ed attonito, richiamato indirettamente ad una responsabilità di alimentare quel sistema lasciandolo sotto traccia, in un sommerso, non visto. Viene in mente la musealizzazione di campi dell’Olocausto in Austerlitz di Sergei Loznista, quel materializzarsi dell’orrore sotto gli occhi in maniera silenziosa e asettica, senza offrire troppe connotazioni o informazioni a chi guarda, trasmettendo un frontale sentimento straniante e perturbante.

Se lo sguardo del regista ucraino proponeva il controcampo sulla più atroce ed emblematica delle geologie/genealogie della separazione durante il secolo breve – l’olocausto – inchiodando il passaggio di status da testimoni della Storia a fruitori inermi della deriva della società dello spettacolo – Mazzocchi/Gasmi si occupano di una ferita vibrante e sanguinante nella presa diretta della contemporaneità. E proprio questo ridurre all’osso, questo scarnificare  in un bianco e nero che traccia,  oltre ai confini geografici, anche quelli dell’ (in)visibile rimette in discussione il significato di vedere quello che succede intorno a noi, di riflettere su come e cosa guardiamo. Arrivati a quel punto, sembrano volerci dire gli autori, è possibile accedere ad un livello di comprensione più profondo dell’immaginario identitario di un popolo (quello africano stando sul dato strettamente biografico dei personaggi, ma che potrebbe parlare in nome di tutto il martoriato e disintegrato oriente dalle guerre predatorie e fratricide).

Questa manifestazione e ridefinizione ulteriore dei confini di un mondo tra interno ed esterno, dove la parola da procedurale ed esplicativa diventa evocativa e mistica (c’è anche un terzo livello, le riprese di un convegno nel quale il fenomeno migratorio è inquadrato sotto un aspetto antropologico e sociologico), si traduce in un orizzonte visionario quasi herzoghiano. Dalla parzialità/porzione di inquadrature che filmano gli angusti ambienti/lager di una transizione/trauma, la vista si spalanca e stabilisce un contatto percettivo e immaginifico con il mistero di novelli Kaspar Hauser, nevroticizzati dalla richiesta e dalla pressione di dimostrare chi sono in una verticale dinamica di dominio e asimmetria (eloquente è la sequenza in cui i capi braccianti offrono loro un lavoro, con il patto di non parlare né di soldi né di qualsiasi altra condizione, con la richiesta altresì di un’ indeterminata disponibilità).

Non può esserci una reale sintesi, o meglio una crasi di sensi e segni per questa spaccatura/ferita/scissione, se non traslata dal miracoloso incontro di sensibilità avvenuto tra i due autori, dove si avvertono uno scambio e una comprensione profondi.

Un incontro che può (forse) generare una nuova possibilità, un’altra prospettiva: la porta/inquadratura aperta su un paesaggio che non è più isolata e immobile porzione, ma parte di un tutto che contiene e fluisce.


Geology of separation – Regia, sceneggiatura, fotografia: Mauro Mazzocchi e Yors Gasmi; montaggio: Yors Gasmi; produzione: Mauro Mazzocchi,Yors Gasmi, Nicholas Pradal per L’Argent; origine: Italia/Francia/Tunisia, 2023; durata: 153′.

 

 

 

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